lunedì 25 agosto 2008

Mongol di Sergei Bodrov (Germania , Russia , Kazakistan/2007)

Uno dei più grandi condottieri di sempre. Un pezzo enorme di storia mondiale. Enormi lande desolate ed eserciti di migliaia di persone. Pensate a un film che racconti tutto questo. Difficilmente non andrete a pensare a una trilogia di polpettoni da tre ore l’uno. Ed ecco l’errore. Perché Mongol dura a malapena 2 ore, e non richiede un minuto in più.



Sergei Bodrov gioca magistralmente la carta dell’ellissi, uno strumento meraviglioso capace di unire le esigenze di una narrazione spezzettata dalla mancanza di documentazione e l’aura fumosa della leggenda. Lo spettatore viene chiamato in causa, dovendo colmare attivamente intere porzioni dell’esistenza del grande Khan giocando con il proprio immaginario, creandosi da sé una mitologia capace di toccare le corde più profonde e personali. Il risultato va aldilà della pornografia di un Peter Jackson o di un Ridley Scott, restituisce all’immagine il ruolo che gli compete. Le vorticose carrellate su eserciti di pixel lasciano spazio a magnifiche inquadrature della steppa, illuminata da luci naturali. Nessuna attenzione alla vorticosa ascesa del nostro, ma un’impietosa cronaca delle cadute di Temudjin. Una storia d’amore lunga una vita, bagnata dal sangue della battaglia e dal lerciume della prigionia.



Il linguaggio cinema adottato dal Nostro unisce passaggi prossimi al documentario e sperimentazioni digitali. La Mongolia ci viene mostrata attraverso gli occhi innamorati dell’uomo destinato a dominarla: sconfinata, illuminata da un sole freddo e dipinta da mille sfumature di verde e marrone. I colori desaturati e luci naturali narrano meglio di mille evoluzioni in CG, così come i ritmi lenti e contemplatori. Nelle battaglie il sangue scorre a fiumi, la macchina da presa finisce sempre in posizioni inusuali (riprendendo alcune idee dalle risse di A Bitterswee Life di Kim Ji Woon), alternando campi lunghissimi a primi piani e particolari stretti ma mai caotici. Come se l’avanguardia di Tsui Hark fosse stata girata a 120 fotogrammi al secondo, Tutto senza mai sconfinare nell’enfasi d’acchito. Non siamo ne dalle parti di Zack Snider ne in quelle di John Woo, ma piuttosto ci si avvicina al prodigioso Mechenosets di Filipp Yankovsky, esempio di eleganza e classe unite a presupposti che si presterebbero in maniera agghiacciante a interpretazioni di plastica. Il tableaux vivant perde il suo approccio sospeso tra torri d'avorio e bassa manovalanza xxx per diventare strumento di immaginazione.



Un’opera che riesce ad avvicinarsi a ogni tipo di spettatore senza sconfinare nel populismo. Cinema d’autore che non si vergogna di sperimentare nuove vie per il linguaggio dell’azione.

1 commento:

Giangidoe ha detto...

Critica appassionata e iperanalitica, come di consueto.
E dire che quando uscì questo film, e soprattutto dopo averne letto un'inaspettata recensione positiva che ne esaltava proprio lo sperimentalismo e la diversità dai polpettoni storico-epici patinati hollywoodiani degli ultimi lustri, mi era venuta voglia di vederlo. Ma -come al solito- non ho trovato complici nè ho avuto voglia di andarci da solo.
Prima lo facevo più spesso (andare da solo al cinema quando non avevo complici), ma con le dimensioni e i tempi della vita nella capitale sono cambiate molte antiche abitudini, ahimè!