venerdì 2 gennaio 2009

Missing (The Eye 3) di Tsui Hark (HK/2008)




Se dovessimo abbassare il valore di un lungometraggio a contenitore generico potremmo dire che in Missing c’è tanta roba buona, così come una tonnellata di cose sbagliate. Che, malauguratamente, sono andate a coprire proprio quelle di valore.



Missing, oltre a essere il terzo fantomatico capitolo del franchise The Eye, è anche il nuovo lavoro del Maestro Tsui Hark. Uno che nella sua vita ha rivoluzionato il cinema un paio di volte, ma anche un personaggio che ha sempre schifato il cinema d’autore per fiondarsi in sala a godersi film di arti marziali (parole sue). Insomma, uno da cui non sai minimamente cosa aspettarti. E così infatti è stato pure per questo suo nuovo parto.



Missing parte con il presupposto di allontanare l’ectoplasma dalla sua prigione jhorror per poterlo immergere in un contesto da melodramma. Non una completa novità, se si vogliono ricordare due splendidi esempi come Whispering Corridors 2: Memento Mori dei sud coreani Tae-Yong Kim e Kyu-Dong Min e Dorm del tailandese Songyos Sugmakanan. Se il secondo è un capolavoro di dolcezza, una delicata vicenda di fantasmi bambini, il primo rappresentava invece un autentico fulmine a ciel sereno. Un inconsueto triangolo amoroso lei – lei - l’altra (ma morta) ad ambientazione liceale, che sfuggiva a ogni tentazione pruriginosa o politica. Nella stessa maniera Missing punta a narrare la straziante storia d’amore tra due entità su diversi piani della realtà, anche se con toni più cupi rispetto agli esempi appena riportati.



Un avvio splendido, un’atmosfera da apocalisse imminente che riporta alla memoria Hitchcock (grazie soprattutto alla opprimente colonna sonora orchestrale), un’attenzione maniacale all’aspetto acquatico della vicenda portata avanti anche con sapienti scelte di fotografia. L’atmosfera è rarefatta, tesa, come se la minaccia fosse nascosta dietro a ogni angolo. Peccato che appena la minaccia entri nell’inquadratura il film incominci a barcollare pericolosamente.



Esattamente alla stessa maniera la seconda parte (dove subentra prepotentemente il melodramma) si affloscia su se stessa quando la suggestione si materializza nella sceneggiatura. Missing mostra troppo e per un lasso di tempo troppo lungo, smette di sussurrare e incomincia a spiegarci per filo e per segno ogni cosa. Sia che si parli di spaventi o di storie d’amore.



Ne rimane un film monco, che risulta comunque affascinante nel suo tentativo di abbattere i muri del genere. Da parte sua Tsui Hark garantisce un grado di perizia tecnica imbarazzante anche quando cerca di mimetizzarsi. Peccato per la sceneggiatura.

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