giovedì 30 aprile 2009

Passenger Album preview: Aleksander Kostenko

Nuova piccola anteprima dal prossimo Passenger Album. Questa volta si tratta di una pagina tratta dalla striscia di Aleksander Kostenko, un personaggino nato e cresciuto nella porzione più estrema della grande Russia. Ma dove andiamo a scovarli?

mercoledì 29 aprile 2009

Agoraphobic Nosebleed - Agorapocalypse (Relapse/2009)

Questa volta non c’è nessuna folle sessione fotografica a base di doppiette puntate in faccia e mucchi di cocaina, nessuna manipolazione capace di trasformare i lineamenti del volto in orefizi femminili, nessun tipo di imbruttimento prospettico. Mi rigiro tra le mani il case dove prende posto questo Agorapocalypse e mi ritrovo gli Agoraphobic Nosebleed in piena luce, ripresi in posa impettita immersi in un set a metà tra un rudere e il bosco dietro casa mia. Jay Randall pare perfino appartenere alla stessa specie animale che ci accumuna tutti. Sposto lo sguardo poco più in basso e trovo un piccolo bollino rettangolare, dove poche righe di testo ci informano di quanto la droga possa fare male. Esatto, lo stesso avviso che si poteva trovare sul retro dei dischi della Roadrunner quando ancora si chiamava Road Racer. Tanto per identificare un’epoca. Faccio uno più uno e decodifico il messaggio, che scopro comporsi di sole sei lettere: t hra - sh.



Ed è proprio questo che mi travolgerà in pieno volto pochi secondi dopo, 13 tracce di furioso e abrasivo thrash sintetico. Gli Agoraphobic Nosebleed riescono ancora a stupire consegnandoci il loro album più lontano da quell’epitaffio alla musica intitolato Frozen Corpse Stuffed with Dope, ricordato ai più come loro debutto ufficiale. Molto molto molto molto meno estremo (ma cosa non lo è?), più godibile e adrenalinico, decisamente piacevole all’ascolto. Considerando con chi abbiamo a che fare non è proprio la cosa più scontata da dire. Perfino i suoni acquistano una rotondità e una pienezza che non ci si poteva neppure sognare di avere nei loro precedenti lavori, totalmente deumanizzati e deumanizzanti. Scott Hull pare ricordarsi di essere quell’omino capace di scrivere il riff più devastante di tutti i tempi (per la cronaca: il break centrale di Mapplethorpe Grey, a opera dei suoi Pig Destroyer) e che lo studio di registrazione serve per incidere meglio di quanto si possa fare con un mangianastri trovato in cantina (un giorno o l’altro qualcuno mi dovrà spiegare perchè i produttori estremi tendono a dare un suono cristallino a ogni band in cui loro stessi non suonano, per poi recuperare tutto il lerciume sprecato ficcandolo nei loro progetti. Vedi Mieszko Talarczyk). Il trio di urlatori composto dal già citato Jay Randall, Richard Johnson e dalla dolce Katherine Katz (degna antagonista della mitica Mel Mongeon, in forza ai canadesi Fuck the Facts) vomita la solita enciclopedia di offese al buon gusto con una nonchalance invidiabile, andando a sposarsi alla perfezione con il milione di riff e cambi iniettati di stricnina tipici del chitarrista/produttore/mastermind Hull. Il risultato è un bel quadretto da Mulino Bianco, se con l’espressione Mulino si volesse indicare un mattatoio e con Bianco il colore della carne cruda.



Buona Agorapocalypse a tutti.

martedì 28 aprile 2009

Assassin's Creed 2 e la realtà aumentata





Beccatevi il video qui sopra. Bene o male illustra il funzionamento del nuovo sito teaser per il videogioco Assassin's Creed 2 (qui trovate una spiegazione più dettagliata). La tecnologia è quella della realtà aumentata, vista prima nelle gallerie d'arte poi nelle campagne pubblicitarie di Mini e Diesel. Abbiamo di fronte la prossima evoluzione della sfera videoludica? Non lo so, ma l'incastro tra realtà e finzione coma parte fondamentale di questa next gen mi pare ormai una certezza.

[kick-ass movie] The Street Fighter di Shigehiro Ozawa (Jap/1974)

Se dovessimo mappare il cosiddetto cinema dei calci e dei pugni The Street Fighter si troverebbe più o meno agli antipodi di La 36ma camera dello shaolin. Questo perché nel seminale capolavoro di Lau Kar Leung l’arte marziale era perno centrale di un profondo bildungsroman e di una struttura narrativa dove l’addestramento (quella parte di film che di solito occupa lo spazio di un montaggio musicale) finiva per occupare ben più della metà dei 115 minuti di lunghezza del lungometraggio. Il giovane Yu Te passava da sprovveduto ribelle a maestro, maturando nella tecnica quanto nella filosofia, restituendoci nel frattempo il ritratto definitivo del cinema action made in HK. Le mazzate finalmente trovavano una profondità tale da influenzare anche il linguaggio cinematografico con cui le si raccontava, traghettandoci verso la fine di un’era e aprendo le porte alla nuova scuola.



The Street Fighter è invece il trionfo della superficie e del genere, una commistione pop tanto potente da divenire archetipo di un certo tipo di brutalità. Basti la tagline “If you've got to fight...fight dirty!” per farci capire come filosofia e rispetto per l’avversario non siano neanche presi in considerazione dai protagonisti. Il Takuma Tsurugi di Sonny Chiba è un vero bastardo, uno che attacca alle spalle e non ci pensa un secondo prima di vendere al racket della prostituzione una cliente incapace di pagarlo per i suoi servigi. Ma è anche un duro capace di versare una lacrima per il suo assistente morto in un tentativo di salvataggio o di capire che la giustizia sta dal parte del vecchio maestro di karate amico del padre. La sceneggiatura ci suggerisce inoltre come il Nostro sia un autentico mostro di acume e capacità investigative, visto che sa sempre dove trovarsi e come arrivarci al momento giusto. Naturalmente ogni spiegazione viene eliminata dalla narrazione, a favore di un minutaggio assurdo dedicato alla sua aggressività in combattimento. Perchè Sonny non si limita picchiare decine di malviventi (una fantomatica sinergia tra yakuza e mafia), lui deve strappare giugulari, asportare testicoli, scagliare gente da grattacieli e sfondargli il cranio in maniera talmente esagerata da costringere il regista Shigehiro Ozawa a riprendere la scena attraverso una radiografia (scelta passata alla storia e rivista in moltissimi film, da The story of Ricky a The Toxic Avenger 4, passando per Romeo deve morire e Shinobi). Oltre che picchiare donne come se non ci fosse un domani. Giuro, manco Chow Yun Fat in Tiger on the beat.



Ciò che rende The Street Fighter un autentico kick-ass movie è il suo totale disinteresse per limiti invalicabili e velleità autoriali. Nonostante una regia nervosa e ricca di trovate affascinanti (stupendo l’effetto “caduta” o il duello finale sotto la pioggia battente), perfino colta nel suo citare il Maestro Fukasaku ogni qualvolta la camera da presa si trovi inclinata rispetto al suo asse, tutta l’attenzione è su Takuma Tsurugi. Personaggio bigger than life per eccellenza, costantemente impegnato nel grugnire o sorridere beffardo osservando i geyser di sangue provocati dai suo colpi terremotanti, quintessenza del picchiatore nei decenni a venire. Praticamente immortale e infallibile in ogni sua sortita. Se lo spadaccino monco di Chang Cheh, primo personaggio del wuxia cantonese a guadagnarsi un posticino nella mitologia moderna, rifuggiva in ogni modo la violenza (nonostante i fiumi di sangue che contraddistinguono tutta la sua trilogia, in particolare l’autentica mattanza del secondo e del terzo capitolo), il combattente di Sonny Chiba invece non vede l’ora di menare le mani. Non c’è tempo per la riflessione o l’approfondimento psicologico, bastano un paio di pennellate per rendere tangibili i tratti distintivi di ogni personaggio, così come appare bandita ogni forma di ironia, relegandola a compito dell’immancabile spalla pasticciona (e per questo allontanata da Takuma stesso, tanto per farvi capire con che figlio di buona donna abbiamo a che fare).



The Street Fighter rimane un caposaldo dell’action più scatenato, autentica pietra miliare di un modo di fare cinema forse ingenuo ma capace di affascinare intere generazioni di spettatori. E tassello immancabile di quell’enorme mosaico che risponde al nome di immaginario collettivo.




mercoledì 22 aprile 2009

Ci si vede a Napoli!

Presso La Stanza, Comicon 2009. Oltre alle nuove uscite Passenger Press (qui qualche anteprima) portiamo in fiera anche fichissime produzioni indipendenti dal Portogallo (da paura, più che fumetti libri d'arte veri e propri) e una serie di altre succose sorprese. Tutto di pregio.



Per chi non passa un consolino in testa al post, un'anteprima dalle prossima uscita. Da parte della nostro amico
Yokobox, direttamente da Tokyo, Mattias Adolfsson (Svezia) e Natalie Ratkovski (Russia).



Ci si vede a Napoli!

martedì 21 aprile 2009

Flora: Chris Cunningham per Gucci





Nuovo segnale di vita dal pianeta Chris Cunnigham. Come al solito, poesia.

Rimasterizziamo l'impossibile: Lam Ngai Kai e l'arte dell'eccesso a tutti i costi

Chi non conosce il grande Lam Ngai Kai? Il genio dietro al culto The Story of Ricky (il film di arti marziali più gore della storia, praticamente Ken il Guerriero in carne e ossa), l'umorismo necropecoreccio di Erotic Ghost Story (pellicola che consegna alla storia le tette di Amy Yip) e, sopratutto, la follia assoluta di The Cat. Di questo film non parlerò molto, dirò soltanto che una cosa così non l'avete mai vista. MAI. Pensate al b movie più scatenato che la vostra testolina nerd possa concepire, poi elevate al cubo. Insomma un vero re dell'eccesso, oltre che uno dei grandi misteri di Hong Kong (a cui possiamo avvicinare quel mostro di tecnica e cattivo gusto che risponde al nome di Clarence Fok).



Fin qui nulla di nuovo, se non fosse che anche il nostro Lam Ngai Kai si sia improvvisamente scoperto degno di rimasterizzazione. Scopro così che su yesasia.com sono disponibili non uno, ma bensi due, capolavori del Nostro in versione remaster.



Il primo è The Seventh Curse, delirio psicotronico fatto di mostri di gomma e frattaglie. E Chow Yun Fat. Il dvd è in giro da un anno. Non ne sapevo nulla, per farmi perdonare ecco il trailer di questo monumento:




Il secondo invece è un misterioso poliziesco dal titolo Men from the Gutter. Produzione Shaw Brothers (quelli della 36ma camera di Shaolin), e di conseguenza sontuosa rimasterizzazione a opera della Celestial (beccatevi il loro cofanetto per la trilogia de One Armed Swordsman, da non crederci). Su questo si trova poco materiale. I pochi che ne parlano ne parlano bene e mettono, naturalmente, l'accento sulla brutalità e il gusto per l'eccesso.



Conclusione? Siamo ad aprile ma mi pare Natale!

lunedì 20 aprile 2009

Philips Carousel Commercial di Adam Berg





Sono ben conscio che questo video l'hanno già visto tutti, ma non potevo farmelo mancare. Era dai tempi del capolavoro The Mission di Johnnie To (sempre lui!) che non vedo una sparatoria statica di tale potenza. La era il passaggio definitivo dal noir balistico del ventennio d'oro alla decostruzione dell'eroe Milkywayana (stilizzata e elevata a cultura pop dalla trilogia Infernal Affairs, serie di film assolutamente priva di significato fuori dal contesto cantonese. Vero Martin?), qui quella che potrebbe essere una nuova soglia nel linguaggio action occidentale. Non a caso, quale è stata la parte del film di Watchmen che è piaciuta proprio a TUTTI? Un uso estremo della moviola dona all'opera filmica un aura di teatralità impossibile da raggiungere in altri modi (si veda come esempio supremo il rape'n'revenge svedese Thriller: a cruel picture di Bo Arnde Vibenius), sempre che si riescano a evitare banalità targate Wachowsky. Quindi tutti a spolverare le vecchie vhs di Sam Peckinpah, John Woo, Enzo G. Castellari (dubito che qualcuno ci abbia fatto fare veramente la polvere), ma non dite niente a Michael Bay. Vuoi mettere le risate?

Intermission: Dildocorn Pony

mercoledì 15 aprile 2009

[trailer] Valhalla Rising di Nicolas Winding Refn (Den/Uk/2009): lerciume e vichinghi





Avete presente Pathfinder? Fotografia da videoclip, wrestler nei panni di vichinghi e un immaginario perfetto per il multisala più vicino a casa. Adesso fate girare la stessa storia al danese dietro alla trilogia Pusher (eletta da me medesimo come miglior trilogia noir di sempre) e al folle Bronson. Cosa ottenete? Semplice, Valhalla Rising. Lercio, brumoso, antiepico, violento e sgradevole. Il minimo per un'opera che punta a narrarci di un tempo dove la gente regolava i conti mutilandosi. Senza contare che, finalmente, vedremo asce e spadoni in mano a persone vere, e non a folle oceaniche nate da qualche click del mouse.

martedì 14 aprile 2009

Beauty Full Beast di Federico Sfascia: la commedia degli equivoci si fa horror


Frank, amante della perfezione estetica e gestore di una profumeria di successo, venera Rosa in virtù della sua bellezza. Dopo 5 anni di fidanzamento finalmente riesce a farsi invitare a casa, desideroso di conoscere i genitori dell' amata e di ufficializzare così l’unione. Tutto sembra quadrare, ma un errore di tragitto cambierà per sempre la sua visione del mondo



Penso a horror indipendente e subito il pensiero corre a due accezioni: metafora sociologica arty e pallosa o fiera dell’eccesso scorreggione. Grazie, ma ho già dato. In entrambi i casi. Poi ti capita tra le mani un gioiellino come questo Beauty Full Beast e le carte in tavola cambiano. Perché al di là del budget risicato, di alcuni scivoloni e dei compromessi inevitabili il debutto di Federico Sfascia rimane un fantastico esempio di contaminazione tra generi. Oltre che una divertente commedia romantica.



L’intuizione geniale sta proprio nell’aver (quasi) ovviato le solite pacchianerie da bmovie forzato per costruire tutto il lungometraggio attorno a uno scheletro di umorismo garbato e intelligente, totalmente fuori contesto. Non è un caso se i momenti in cui si ride di più sono proprio le gustose scenette di vita familiare, i battibecchi tra la copia protagonista e le gag meno grafiche e più “di sceneggiatura”. A lasciare perplessi sono le rare cadute in un sense of wonder eccessivamente strampalato e troppo legato a un bizzarro a tutti i costi. Federico scrive dialoghi freschi e brillanti, dirige alla grande gli attori e riesce a immergerci in un’atmosfera scanzonata, senza volgarità o eccessi gratuiti. Poi trasla tutto in un mondo popolato da demoni ed esseri mostruosi, ottenendo un’alchimia strepitosa. Immaginate un film di Sam Raimi scritto da Kevin Smith e avrete un immagine piuttosto fedele di questo Beauty Full Beast.



Una commedia basata su battute fulminati e monologhi autoriflessivi incontra una regia inventiva e rapidissima, tutta stacchi di montaggio e steady al fulmicotone. Influenze conducibili al cineasta del Michigan incontrano le intuizioni del suo gemello/allievo/maestro/rivale Ching Siu-tung (pose plastiche, teli svolazzanti, fumo, primissimi piani su oggetti in volo) con risultati eccezionali, soprattutto se si considerano mezzi e budget a disposizione. Perfino la resa video gioca a favore del regista, donando al tutto un’aura deliziosamente ottantiana e spazzando in un colpo solo anni di ciofeche in digitale. Stesso discorso vale per effetti e make up, orgogliosamente artigianali e "fisici".



Beauty Full Beast non è un film perfetto, sia dal punto di vista tecnico che registico, ma risulta di una sincerità e di un amore per il suo medium talmente palesi da far soprassedere a questi piccoli nei. Un cult che meriterebbe maggiore visibilità, magari dopo un adeguato make up.



sabato 11 aprile 2009

Quando la Scimmia incontrò il Passeggero


Che io sia un grande fan delle produzioni Passenger Press non è un segreto (clicca qui e qui per un paio di esempi). Dopotutto come si può non supportare una piccola casa editrice cosi maniacalmente attaccata ai suoi prodotti? Grandi idee editoriali, cura dei prodotti impeccabile e una serie di collegamenti internazionali non sono cose da tutti i giorni. Immaginate quindi la mia sorpresa nel vedere il buon Christian della suddetta PP avanzare una proposta di collaborazione proprio nei miei confronti. Proposta estemporanea cambiata in corso d’opera, fino a raggiungere lo status attuale. Il risultato saranno una serie di uscite disseminate nei prossimi anni, tutte studiate e concepite per raggiungere il livello qualitativo più alto possibile. Il primo colpo di cannone sarà sparato sul Comicon di Napoli, dove presenteremo due piccoli (ma preziosi) sketch book. Protagonisti delle due uscite, la pechinese Yan Wei e il venezuelano (ma trapiantato a Tampa, Florida) Alexis Ziritt. Due fuoriclasse, tanto interessanti quanto diversi. Crudelmente surreale lei, con le sue malefiche bambine e i suoi mondi caramellati, terribilmente pulp lui, con i suoi lottatori di lucha libre, i suoi zombies e i suoi samurai demoniaci. Tutto in una confezione lussuosa, con stampa tipografica su carta porosa di una grammatura esorbitante. Niente fotocopie, stampa laser, carta velina o altre amenità del genere. Ma perché ho parlato di primo colpo di cannone? Perché mentre i primi volumetti sono in stampa stiamo già portando avanti il prossimo progetto, decisamente più complesso da gestire. Vi assicuro, sarà una cosa mai vista. Il volume a fumetti più lussuoso e pregiato mai visto in Italia. Una lista di artisti da ogni parte del mondo (Taiwan, Giappone, Polonia, Israele, Cina, Brasile, Vietnam, Svezia, Germania, Us, Portogallo, Argentina,…) per una confezione che farà invidia alle uscite di Visionaire. Noi speriamo sia pronto quanto prima, ma la complessità della cosa non ci permette di fare previsioni precise. Diciamo che arriverà prima dell’estate. Per ora beccatevi alcune anteprime dei primi due album, per ulteriori chiarimenti fatevi un giro sul blog della Passenger Press (in arrivo anche il sito, comunque).






venerdì 10 aprile 2009

[trailer] Vengeance di Johnnie To (HK/2009): trailer definitivo per un capolavoro annunciato





Evito ogni commento inutile. Dico soltanto che il 7 agosto esce Exiled al cinema, in Italia. In ritardo di due anni. E intanto Giovannino sforna capolavori su capolavori.

Messaggio per il Rrobe

Arrivato. Adesso lasciami il tempo di leggerlo.

giovedì 9 aprile 2009

La verità brutale arriva ADESSO

Qui in esclusiva il nuovo disco delle leggende Brutal Truth. IL grind.

[trailer] Thirst di Park Chan Wook (Kor/2009)





Esiste un soggetto narrativamente più pericoloso dei vampiri? Ingrediente insipido per banalità gotiche o arguta metafora dei nostri bisogni, tutto dipende da chi ne parla. Penso ad Abel Ferrara, Howard Chaykin, Tomas Alfredson, Richard Matheson e mi tranquillizzo, realizzando che canini e giugulari dilaniate non significano solo cerone e pacchianeria protosadomaso. Da oggi possiamo annoverare a questa ristretta lista (che non si limita ai soli nomi citati, ma che non si dilunga neppure in decine di esempi) anche il sud coreano Park Chan Wook, esteta dell'amoralità già consegnato al mito con la sua trilogia della Vendetta. Dopo la zuccherosa commedia I'm a cyborg but that's ok eccolo alle prese con un prete vampiro, il solito Song Kang-ho, e tutto quello che ne consegue.

mercoledì 8 aprile 2009

All About Women di Tsui Hark (HK/Chi/2008): deliri Pechinesi

Avete presente quando in un film si incrocia l’invenzione di regia che non ti aspetti? Quella che riaccende l’attenzione e che ti fa sperare di diventare regista solo per poterla riciclare selvaggiamente? Ecco, di solito in un film ne trovi un paio di queste intuizioni. In All About Women no, ne trovi almeno una ogni 20 secondi. Per tutti i 120 minuti di durata del film. Equamente divise tra musiche, giochi di montaggio, effetti digitali e sonori, movimenti di macchina e salti di registro improvvisi. Tutto pigiato in una sceneggiatura che vorrebbe essere da commedia romantica ma in realtà sprizza amarezza da tutti i pori. Tutto per mano del sommo Tsui Hark.



Quello che ha scoperto e prodotto John Woo dando il via al noir balistico, quello che introdotto le arti marziali nell’epoca moderna prendendo sotto la sua ala protettrice Siu Tung Ching e che le ha elevate ad avanguardia con il montaggio subliminale di The Blade. Ma anche il genio che ci ha fatto innamorare del folle fantasy di HK e che ci ha stordito con le sue storie urbane e durissime. Uno che il cinema l’ha reinventato almeno un paio di volte e che adesso si può concedere il lusso di giocarci come un pupo.



Tre protagoniste per tre tipologie di rapporti disastrosi con il genere maschile, tutto immerso in una sceneggiatura arzigogolata, complessa e dalle diramazioni imprevedibili. Tsui procede per eccesso e finisce per scottarsi (sul finale si è veramente stremati per la quantità immane di carne al fuoco) anche se il risultato riscatta ogni difetto con la sua freschezza e il suo sapersi rinnovare minuto per minuto. Anche se non si fosse interessati alla storia All About Women è un film da vedere almeno una volta, tanto per rendersi conto di quante cose si possano ancora dire se dietro alla macchina da presa c’è qualcuno capace di gestirla al meglio. Il kitsch incontra la poesia, la commedia demenziale va a sfumarsi nel romanticismo meno scontato e didascalico. La traslazione letterale (e filologicamente perfetta) di molte soluzioni tipiche di fumetti e anime in un contesto “reale” raggiunge picchi che neppure il Cutie Honey di Hideaki Anno riusciva a sfiorare, aiutandosi anche con una gestione del montaggio e della fotografia tipicamente HKonghesi. Tsui porta avanti il suo discorso femminista senza alcuna retorica, aggiungendo tre nuove storie alla sua già ricca galleria di personaggi straordinari (penso soprattutto ad Anita Mui in A Better Tomorrow 3).



All About Women è un giocattolo dalla profondità sconvolgente (perché dietro a ogni scherzo si avverte la presenza di una spiegazione seria e ragionata), una dimostrazione di inventiva e vitalità come non se ne vedeva da tempo (dove la trovate una ripresa in prospettiva di una bottiglia di birra lanciata a un concerto rock?), un film imperfetto (a cominciare dalla durata esagerata, che in origine doveva raggiungere le tre ore) ma mai scontato. Tsui rimarca la sua presenza di autore di serie A anche in un contesto leggerissimo, si riprende dal parziale scivolone di Missing e continua a ricordarci da dove viene, senza alcuna vergogna. Dopo tutto solo un personaggio come lui, uno che entra a far parte della giuria del Festival di Cannes dopo aver passato la vita ad affermare di aver sempre reputato più utili alla sua formazione i vecchi kung fu movies rispetto ai classici d’autore, poteva pensare di sincronizzare il movimento delle palpebre di due fanciulle in lotta per lo stesso uomo con il suono del caricatore di un fucile a pompa. Solo lui poteva infilare nel montato spezzoni di war movies (appositamente girati) per rendere l’idea del confronto uomo/donna. Solo lui poteva inventarsi didascalie di testo che interagiscono direttamente con gli attori. Basta per rendere l’idea?

lunedì 6 aprile 2009

Ong Bak 2 di Tony Jaa (Tha/2008): botte da orbi!

Esistono due tipi di presunzione. Quella intellettuale, tipicamente artistoide e spocchiosa nei confronti di ciò che è popolare, e quella che vuole semplicemente raggiungere il risultato più clamoroso possibile nel proprio campo. Per stare all’interno del genere marziale troveremo l’esempio perfetto della prima accezione in Zhang Yimou e nei suoi wuxia (così incapaci perfino di elevare un genere basso a sega mentale da cineforum di terza categoria) e della seconda in questo Ong Bak 2. Tony Jaa esordisce infatti alla regia con la pretesa di consegnarci il film di arti marziali definitivo. Inutile dire che il risultato non si avvicina minimamente all’obbiettivo preposto, ma rimane comunque degno di riflessione.



Una delle principale critiche mosse al cinema di arti marziali thai era la mancanza di un immaginario coeso e potente. Se i vari Ong bak e Born to fight attiravano lo spettatore come lo potrebbero attrarre video di skate o parcour (svuotando la narrazione di significato filmico per mettere al centro il corpo e le sue prestazioni, cosa di per se pregevolissima e degna di tutta l’attenzione del mondo) con l’arrivo del fantasy/spaghetti western Tabunfire e degli outcast di Chocolate si è incominciato a sentire l’esigenza di un minimo di profondità e di coerenza nell'universo narrato. Tony Jaa risponde a questo in modo sorprendentemente positivo (la cosa migliore del film), creando una Thailandia antica, lercia e umida in ogni suo affranto. Un nuovo mondo prende vita davanti ai nostri occhi, tra sbuffi di vapore, polvere, fango e cascate di sangue. Una fotografia splendida rende i colori vividi e potenti, mentre scenografi e costumisti raggiungono risultati insperati nel dare un’identità a chi popola queste lande selvagge. E si parla di giganti, pirati, ninja, donne corvo, schiavisti, re, maestri di arti marziali,… Una serie infinita di personaggi vivi e palpitanti nel loro essere naif e bidimensionali. Non esiste angolo di Ong Bak 2 che non sia stipato all’inverosimile, regalandoci una visione nuova del fantasy.



Tralasciando di analizzare una trama che non ha neppure la pretesa di essere qualcosa di più di uno scheletro per continui scontri, passiamo alla regia. Siamo onesti, i vari Ching Siu-tung o Liu Chia Liang si confermano irraggiungibili, così come i picchi occasionali del vate di Jaa, Prachya Pinkaew. Quella che rimane è una regia volgare e rozza, che spesso raggiunge il suo scopo proprio in virtù di queste sue caratteristiche. Nessun dolly vorticoso o piano sequenza da record, ma una serie di panoramiche a schiaffo e di soggetti vicinissimi all’obbiettivo. Tale amore pornografico per l’aggressività del corpo viene esplicitato ulteriormente con il numero assurdo di stili e tecniche sfoggiati dal protagonista, arrivando addirittura a far debuttare una strano muay thai dell’ubriaco. Dai timidi combattimenti iniziali alla triturante mezz’ora finale Tony Jaa si riconferma atleta disumano, paragonabile a pochissimi attori viventi (a quando lo scontro Thai vs HK, con il Nostro che si mena con il giovane funambolo del kung fu Wu Jing?). Peccato per l’eccesso di rallenty, a volte suggestivo ma troppo spesso ridondante.



Il buon Tony non riesce a elevare il genere a nuove vette, ma la visone di Ong Bak2 rimane comunque un esperienza appagante e significativa di dove sta andando il miglior cinema action del mondo.



venerdì 3 aprile 2009

N+: morire con stile




Approfitto dell’imminente release europea di questo titolo per parlarne un poco e diffondere il verbo del piccolo ninja/b-boy protagonista.



N+ fa parte di quella privilegiata stirpe di videogiochi ben consapevoli di aver scovato l’ambitissima ricetta magica. Penso alla serie di Katamari o a Elite Beat Agent, due fra gli esempi più fragorosi di tale fenomeno. Si parla di giochi minuscoli, graficamente nulli e senza la minima pretesa di narrazione, ma dotati di un carisma tale da infrangere le barriere della nicchia videoludica. In parole povere sono cazzatine a cui non daresti due lire ma su cui finisci per perderci ore.



Già al primo minuto di gioco ci si accorge di come la proposta Atari riesca a differenziarsi dal resto della marmaglia next ”solo nella grafica” gen. Questo perché N+ ha stile, una marea di stile. Prendete uno qualsiasi dei classici del retrogaming alla Lode Runner, aggiornatelo dotandolo di una filosofia di fondo molto affine a quella del parcour e date al tutto un taglio molto underground, quasi da street art nostalgica. Il risultato è un mondo bidimensionale, a tinte piatte e privo di ogni orpello estetico, dove muovere il pugno di pixel che compongono il nostro ninja accompagnati da ossessivi beat rigorosamente lo-fi. Centinaia di livelli dove raccogliere i sempreverdi blocchetti d’oro, sfruttando solamente il pad direzionale e un tasto per il salto. Pochissime regole, molti nemici e un numero infinito di vite bruciate. Perché in N+ morirete tante, tante, tante volte. Per via di una mina, di un salto troppo alto, di un androide, di un missile a ricerca, di un trabocchetto o semplicemente per via del tempo scaduto (e in N+ il tempo si misura in millisecondi, con la conclusione che alcuni livelli si bruciano in 2/3 secondi). Per quanto possa apparire semplice e scontato questo è quello che ci mette a disposizione Atari, e adesso passiamo a noi.



N+ non è un gioco, è una tavolozza su cui sfoggiare la propria abilità. Ogni livello può essere terminato in maniera banale e pragmatica o, in alternativa, divertendosi un mondo in acrobazie da funambolo. La semplicità dei comandi e l’immediatezza delle meccaniche eliminano ogni tipo di scoglio, garantendo divertimento e agonismo senza frustrazioni di sorta. Per le bestemmie ci pensa la curva d’apprendimento, non vi preoccupate. Completa il tutto un multiplayer da urlo (candidato miglior co-op ai Gamespot Awards del 2008) e un editor che sfrutta appieno le potenzialità del DS (disegni il livello con il pennino e ci giochi subito). Atari vi da così l’opportunità di fare il gioco vostro, di modellarlo sui vostri bisogni e abilità. Il problema longevità svanisce, l'attività videoludica torna a essere svago estemporaneo e fine a se stesso.




Certo, se adesso mi veniste a dire che sparare a uno stormo di zombie dotati di moto da cross dal retro di un Hummer lanciato a piena velocità nella savana (di cosa starò parlando?) è più gasante di muovere due lineette su uno schermo da 3 pollici direi che è dura non darvi ragione. Ma vuoi mettere lo stile?




mercoledì 1 aprile 2009

[trailer] Metallic Attraction: Kung Fu Cyborg di Jeffrey Lau (2009)





Leggo il nome di Jeffrey Lau e penso a quella follia di A Chinese Odyssey. Film sospeso tra capolavoro e spazzatura come nessun altro, esempio perfetto di tutto quello che significa cinema di HK. Ora date in mano a questo soggetto un film in cui poter ficcare melodramma da quattro soldi, robottoni giganti e arti marziali. Tutto rivisto attraverso il filtro della pacchianeria che il regista garantisce a ogni fotogramma. Il risultato è un trailer di una bruttezza che non può non entusiasmare. La curiosità sale alle stelle.