lunedì 15 febbraio 2010

Straight from da hood: Sin Nombre di Cary Fukunaga (Mex/2009)







Rimango sempre più dell’idea che l’espressione grim & gritty dovrebbe diventare definizione di un genere a sé, piuttosto che aggettivo adattabile a ogni filone. Grim & gritty sono tutti quei film che, partendo da un contesto noir, ne spogliano ogni significato simbolico e lontanamente legato all’horror (come impone il canone classico del cinema nero), andando a descrivere un universo orribile, dove tutto volge ineluttabilmente e inevitabilmente al peggio, senza sovrastrutture o richiami meta testuali. Quello che ti ammazza non sono ossessioni, demoni interiori o cose così, ma il pusher a cui hai fregato la droga, la gang con cui hai scazzato o lo psicolabile armato di pistola a cui hai rubato il posto sul metro. Zero, e sottolineo zero, licenze poetiche. In questo filone inscriverei Long Arm of the Law (1984) di Johnny Mak, la trilogia del Pusher di Nicolas Winding Refn (l’ultima inquadratura del primo capitolo è la sintesi di tutto questo filone, con la certezza della morte stampata nello sguardo del protagonista), Dangerous Encounters: 1st Kind di Tsui Hark, Tropa de Elite di José Padilha e da oggi anche questo Sin Nombre di Cary Fukunaga. Film diversi tra loro, accumunati però da un tanfo di morte vana che li rende più estremi di qualsiasi torture porn.



Sin Nombre ci racconta le lordure delle gang, ibridandosi con il road movie e il melodramma. Seguendo la fuga di una famiglia di immigranti e raccontando il loro incontro con El Casper, membro dei Mara Salvatrucha condannato a morte dai suoi stessi ex commilitoni. Inevitabilmente scatta la storia d’amore tra la più giovane componente del nucleo familiare e il criminale, mentre la caccia all’uomo diventa sempre più disumana mano a mano che ci si avvicina ai confini degli Stati Uniti.



La scrittura e la regia di Fukunaga sono asciutti, senza per questo risultare poveri o forzatamente legati a certo cinema verità. Tra tutti i titoli citati nel primo paragrafo questo Sin Nombre risulta essere il più cinematografico, ricco di trovate eleganti e ad ampio respiro. La scelta di una paletta colori viva e pulsante viene dall’ambientazione sud Americana piuttosto che dallo spirito della sceneggiatura, confermando questo con commenti musicali minimali e carichi di amarezza (nessuna forma di crossover/hiphop da chicanos a inquinare un’atmosfera sommessa e lontana anni luce da certe smargiassate da gangs movie a stelle e strisce). La gestione perfetta dei tempi permette di mantenere comunque la durata della pellicola nei classici 90 minuti, mentre l’acutezza della sceneggiatura ci regala ritratti profondi e credibili dei protagonisti. Quello che colpisce e che più rimane impresso è come una storia esplicitamente di finzione si incastri alla perfezione in un contesto autentico e privo di esagerazioni romanzate, andando a restituirci integralmente al realismo solo sul finale. Secco, doloroso, privo di climax. E magnificamente scontato. Come succedeva nel capolavoro Mother di Joon Ho Bong la soluzione più facile (e più crudele) è quella giusta, anche se questo ci strappa dal fantastico mondo dei 24 fotogrammi al secondo per farci tornare con i piedi per terra.






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