mercoledì 29 settembre 2010

Runaways: come ti rovino una gran serie e (forse) la salvo anche




Brian K. Vaughan non è diventato famoso per i suoi intrecci narrativi. Non è neppure uno scrittore provocatorio o maledetto. Non ha una cultura enciclopedica che sfrutta per destrutturare i generi e si astiene dall’avanguardia a ogni costo. Alla fine dei conti a Brian interessa solo una cosa: scrivere di persone vere. Anche se si tratta dell’ultimo uomo sulla Terra, di un ingegnere capace di parlare alle macchine o di un dinosauro telepatico.



Chiarito questo passiamo a parlare di Joe Quesada, l’uomo dalle idee fuori controllo. Nonostante siano indubbie certe sue trovate geniali, in pochi sarebbero stati capaci di prevedere cosa ne sarebbe stata della Marvel dopo il suo passaggio a editor-in-chief. Pensate alle discrepanze intenzioni/risultato della linea Ultimate o alla mutazione caratteriale di certe testate (il Punitore su tutte). Cercate di ricordarvi della defunta sottoetichetta Tsunami, dedicata agli adolescenti.



Come prima testata di questa nuova ramificazione della Casa delle Idee fu scelto il Runaways della copia Vaughan/Alphona. La serie parte in sordina, con uno spunto poco più che interessante e i disegni ancora incerti del giovane canadese. Effettivamente, a meno che non si sia cresciuti consumando i dvd di O.C., l’idea di un supergruppo di preadolescenti residenti nei ricchi quartieri di Los Angeles non è proprio il massimo. Ancora peggio se si pensa che il tutto spinge il più possibile (fallendo) su di un furbo appeal da american manga (vedi le orride cover di Jo Chen). Ma quello di cui la testata ha bisogno è solo un po’ di tempo per garantire a Brian spazio di manovra.



Come si voleva dimostrare dopo la fine del primo ciclo non frega più nulla a nessuno del supercattivo di turno o della minaccia aliena del caso. Al centro delle storie c'è, forse per la prima volta nella storia della Marvel, un gruppo di veri adolescenti. Confusi (anche sessualmente), insicuri, acerbi, con gli ormoni a 2000 e smargiassi come solo qualcuno sotto i 18 anni può essere. La formazione dei Runaways cambia in continuazione, così mentre qualcuno muore qualcun altro scopre di essere attratto dal proprio stesso sesso. Senza dimenticare chi il proprio sesso non l’ha ancora scoperto del tutto. E poi c’è chi non vuole percorrere la strada imposta dai propri genitori e chi si sente fuori posto in qualsiasi istante della propria vita. Chi si getta tra le braccia di chiunque e chi non riesce ad accettarsi in nessun modo.



Si aggiunga a questo un Adrian Alphona in crescita esponenziale (gli ultimi numeri della sua run sono stratosferici) e si ottiene un titolo che di preadolescenziale non ha nulla. Bravo Joe, ci hai preso ancora una volta. Si deve aver passato quegli anni per capire certe sfumature. Anche nelle piccole cose, come il fatto che i protagonisti non riescano a capire battute sull’A-Team per via della loro giovane età. Un gruppo di scalmanati che vede il mondo in bianco e nero, ancora incapace di definirsi (come Chase, trattato da tutti alla stregua del belloccio poco sveglio e per questo convinto lui stesso di esserlo. Anche se molte situazioni si risolvono proprio grazie a sue intuizioni). Conclusione: la prima gestione di Runaways è un piccolo classico da tramandare.



Poi arriva Joss Whedon e in pochi numeri riesce a dimostrare a tutti di non aver capito nulla. Peccato, perché il suo ciclo sugli X-Men era stato qualcosa di favoloso. Qui invece si perde in viaggi nel tempo, forse (non si capisce dove voglia andare a parare) per dimostrare la differenza tra come certe fasce d’età venissero viste in epoche diverse. Comunque sia la sua è una specie di Gangs of New York steampunk a base di mutanti. Combattimenti, fughe, supercattivi, alleati e tutto quello di cui non ci fregava nulla. Al posto dei Runaways potevano esserci i Vendicatori, non sarebbe cambiato niente. L’idea forte dietro alla testata scompare schiacciata da una scrittura avventurosa per forza di cose. Tra l' altro i disegni sono orrendi e viene introdotto il personaggio più inutile della serie.



Fortunatamente il papà di Buffy rimane poco sulle queste pagine, lasciando il posto a Terry Moore. Uno che della delicatezza di rapporti dovrebbe intendersene. La prima metà della sua gestione è frizzante e toccante allo stesso tempo, nonostante si capisca come l’autore non si senta a casa (il dinosauro Vecchi Merletti praticamente non compare mai, mentre con Brian K. Vaughan era importantissimo). La classe non è acqua, dopotutto. I disegni di Humberto Ramos aiutano a rendere più che gradevole quello che sembrerebbe un riscaldamento. E invece ecco l’ecatombe. Nel ciclo Rock Zombies la mente dietro Strangers in Paradise si concentra unicamente sull’inanellare una serie di battute orrende e fuori posto (quante bambine di 11 anni capirebbero una gag sui Soundgarden?). Gli orripilanti disegni manga completano l’opera. Una tragedia.



Eccoci quindi all’ennesimo cambio della guardia: Kathryn Immonen ai testi e Sara Pichelli ai disegni. E’ sicuramente presto per trarre conclusioni, ma pare di rivivere (nelle giuste proporzioni) i fasti della prima serie. Le tavole si sposano perfettamente con il carattere dei testi, non limitandosi ad apparire carine a ogni costo. Aspetto tassativamente necessario visto che le tensioni tra i personaggi tornano in primo piano, lasciando le pagliacciate da supergruppo a pochi e marginali aspetti. La scena in cui i superstiti della formazione inscenano un ballo di fine anno per simulare una parvenza di normalità è uno spaccato di sensibilità adolescenziale impossibile da ignorare. Nico e i suoi compagni tornano a parlare a fiume, non costringendosi più a qualche battutina da nerd. Un po’ come sulle pagine di Ex Machina, dove le sequenze action si limitano a qualche goffo flashback. Per capire veramente i personaggi che animano le pagine dello sceneggiatore di New York bisogna avere pazienza e fermarsi ad ascoltare quello che hanno da dire, cercare un significato in ogni loro piccolo gesto e leggere tra le righe. Perché, come nella vita vera, spesso quello che ci esce dalla bocca non corrisponde al nostro pensiero. O, meglio ancora, noi pensiamo che corrisponda. Ma le cose sono sempre più complicate di così.

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