mercoledì 16 marzo 2011

[Pyunologia pt.1] The Sword & the Sorcerer di Albert Pyun (US/1982)



Perché la storia (anche quella del cinema) non è fatta solo da chi sta in cima. Anzi, spesso è proprio dal basso che arrivano gli scossoni più interessanti. Basta saperli sentire. Partendo da questo presupposto ho maturato la decisione di recuperare l’opera omnia di uno dei registi più (ingiustamente) vituperati di sempre: Albert Pyun. Parte così Pyunologia, percorso in una poetica da VHS.


The Sword and the Sorcerer è prima di tutto un film estremamente divertente. Al di là (o per merito) del budget risicato, degli attori cani, degli anacronismi e delle ingenuità. Nonostante il passare delle stagioni abbia relegato l’esordio di Albert Pyun nella nicchia dei seriosi sword & sorcery (all’ epoca numerosissimi, visto il successo di Conan), in realtà abbiamo a che fare con un perfetto di swashbuckler movie insaporito da un pizzico di magia. Lontanissimo dalla severa autorità di un John Milius, La Spada a Tre Lame (titolo della versione italiana) gioca tutto sul ritmo travolgente e sull’atmosfera da romanzetto d’appendice d’altri tempi.


Partenza grandiosa, con tanto di stregone/demone in lattice risvegliato da un sonno centenario e spade a retrospinta. Colpi di genio che ci introducono la solita manfrina della corona sottratta con la forza e del primogenito sopravissuto alla strage. Non manca neppure il narratore off che ci proietta in un mondo fuori dal tempo. L’ABC del genere insomma, solida base su cui costruire un plot fatto di cospirazioni, amicizia, vendette e tette al vento.


Terminato il prologo abbiamo un telefonatissimo salto fino al ritorno del principe Talon (interpretato da un marmoreo Lee Horsely) a Ehdan, 11 anni dopo gli eventi drammatici dei primi minuti. L’uomo ora è alla guida di una masnada di mercenari e più che a riprendersi il suo regno pare interessato alle grazie delle rivoluzionarie. Nel giro di un rissa a colpi di cosciotti d’agnello e di una birra al tavolo accetta di liberare il capo della rivolta in cambio di una notte con la bella Alana. Che lui sa BENISSIMO essere sua cugina.


Mi pare chiaro che a questo punto le convenzioni del genere siano saltate del tutto. Sono ben pochi gli eroi del fantasy disposti a rinunciare al loro regno legittimo per del sesso consanguineo. E questo è ancora poco rispetto a quello che deve arrivare. Un susseguirsi di gag memorabili, combattimenti, nudità femminili, eccessi gore e one liner scolpite nella pietra. Un Talon che, trovatosi di fronte a un muro di nemici non previsto, si pronuncia in un poco convinto “Who dies first?” è quantomeno impagabile. Secondo solo al raccordo di montaggio che salta dal classicissimo discorso-gasante-prima-della-rivalsa all’inquadratura dei rivoltosi già rinchiusi nelle segrete del castello.


Il tutto tratteggiato con una povertà di mezzi che è quasi un pregio. I costumi appartengono a epoche diverse, i campi lunghi della città sono riprese di Instanbul e la vita del popolo ci arriva grazie a riprese di repertorio di qualche villaggio medio orientale (mentre, si noti bene, il castello è tipicamente centro europeo. Vegetazione circostante compresa). Anche gli interni cambiano stile architettonico di stanza in stanza. Personalmente sono sicurissimo di aver visto le segrete in qualche altro film.


Albert Pyun è un cineasta troppo intelligente per non capire di avere a disposizione poco più che un mucchietto di nulla. A questo punto meglio divertirsi. Si affida così a una colonna sonora strepitosa (roba da attrazione di Gardaland sotto mescalina) e gira la perfetta trasposizione cinematografica di un fuiletton (o di un romanzetto pulp). Tutto è talmente sopra le righe che è impossibile non pensare a una raffinata operazione di destrutturazione (anche se inconsapevole). E’ come guardarsi un telefilm per bambini innestato con dello splatter e una serie continua di doppi sensi a sfondo sessuale. Il ritmo è brioso e le sequenze a effetto si susseguono con una frequenza tale da non far mai abbassare l’attenzione. Intrattenimento puro.


A Pyun basta un’uscita per codificare la sua estetica da VHS. Se altri registi fanno di tutto per nascondere la povertà di mezzi all’hawaiano sembra quasi che lavorare in certe situazioni piaccia. Pura poesia da bmovie che spinge per essere accettata senza rivalutazioni snob alla Cahiers du Cinéma. Siamo dalle parti di un Mario Bava privo di malizia (e tecnicamente non così eccelso). Proprio come nei film del Maestro sanremese non si cerca una fuga dalla finzione ma si punta a una valorizzazione metalinguistica del fantastico a basso costo. Tutto con le debite proporzioni. Se un film come Diabolik rimane un capolavoro della pop art (e paragone perfetto con TS&TS) è grazie alle strabilianti doti artistiche di un regista senza pari. Inutile illudersi che tali risultati possano essere replicati dal Nostro. Se si guarda allo scheletro concettuale invece non si è troppo lontani. Nei film di Bava un muro di cartapesta non è bello perché mi illude che si tratti di vera pietra, ma perché è un meraviglioso muro di cartapesta messo a simulare la pietra. Senza ironia di sorta. Si tratta semplicemente di un'altra scala estetica rispetto a quella convenzionale. Un po’ come Raimi o Miike, tra gli unici a utilizzare gli effetti speciali esplicitando la loro evanescenza rispetto al fotorealismo generalmente rincorso con ogni mezzo. Stessa cosa con il cinema di Pyun: non è cinema a basso costo che scalcia per entrare alla corte dei gradi, e neppure mimesi ironica di certi canoni. Sono produzioni minuscole che vogliono essere tali, cercando di sovvertire l’ordine delle idee e rendere i difetti punti di forza. Con tutta la sincerità del mondo.



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