venerdì 29 luglio 2011

Perché un nuovo reboot del Punitore non avrebbe alcun senso?



Semplice, perché a settembre quei fighi della Synapse faranno uscire il box dvd+blu ray (region free) di The Exterminator. Per la prima volta in versione integrale. Era già bello tosto prima, mi immagino adesso. Se lo prendete su Amazon, fatevi la combo con il mitico Vigilante di Lustig e siete a cavallo.

mercoledì 27 luglio 2011

Più cattivo di Beppe Bigazzi



Non ringrazierò mai abbastanza quelli di CVLT Nation per questa perla.

[Pyunologia pt.7] Omega Doom di Albert Pyun (US/1996)



Perché la storia (anche quella del cinema) non è fatta solo da chi sta in cima. Anzi, spesso è proprio dal basso che arrivano gli scossoni più interessanti. Basta saperli sentire. Partendo da questo presupposto ho maturato la decisione di recuperare l’opera omnia di uno dei registi più (ingiustamente) vituperati di sempre: Albert Pyun. Parte così Pyunologia, percorso in una poetica da VHS.


Prendi Rutger Hauer. Chiedigli (ancora una volta) di interpretare la parte di un ibrido androide/umano filosofeggiante. Infilalo nella sceneggiatura del remake non ufficiale (uno dei tanti) di Per un pugno di dollari e fai dirigere il tutto a un ex assistente di Akira Kurosawa. Bella serie di cortocircuiti, vero? Sono cose che succedono nel folle mondo di Albert Pyun.


Omega Doom è un film girato nei (per il regista hawaiano) bui anni ’90, un lungo periodo di transizione tra le glorie da videonoleggio del decennio precedente e la recente fregola da semi indipendente. Come per tutto il resto delle produzioni di questa parentesi il budget si colloca spaventosamente sotto la soglia di povertà, limitando il lungometraggio in ogni suo aspetto. 80 minuti, una location, dieci attori (gregari compresi), effetti speciali a 16 bit. Tutto condito con il solito gusto iperpop del Nostro uomo, capace comunque di ridersi addosso (come far capire che gli androidi sono androidi? Semplice, chiedendo agli attori di muoversi a scatti e piazzando qualche effetto audio alla T-800) e di concedersi l’immancabile lusso dei suoi guizzi di regia. Anche se, e va detto, mai così distribuiti con il contagocce.


Il senso di un film come questo sta tutto nel constatare ancora una volta come l’immaginario di Pyun sia spaventosamente simile a quello del suo fan medio. Abbiamo gli stacchi di montaggio tipici della scuola di HK, una trama che gioca con uno dei western/chambara più iconici di sempre, l’umorismo più o meno involontario delle produzioni bis, tanti riferimenti ai classici della fantascienza (anche quelli che verranno, vedi il look delle cattivissime ROM. Puro Matrix-style con 3 anni di anticipo) e un protagonista 100% badass. Che poi, per lo spettatore medio, sarebbe l’unico motivo degno per cui dedicare quasi un’ora e mezza della propria vita alla visione di questo film. Nonostante l’impossibilità di nascondere la natura di progetto come Omega Doom e la serie di scelte non certo positive da cui usciva, Rutger Hauer mantiene una dignità e una professionalità eccezionali. Il suo protagonista è di gran lunga la cosa migliore di tutto questo teatrino post-atomico. Smargiasso e duro come il più tipico dei pistoleri spaghetti western (richiamati in continuazione), filosofo e melanconico come solo un sopravissuto qualche scontro sanguinoso potrebbe essere. Una sorta di Frankenstein di influenze a cui il grande attore olandese riesce a dare spessore e credibilità.


La pecca maggiore di tutto il lavoro rimane comunque la mancanza di almeno una trovata totalmente folle e fuori controllo, aspetto ricorrente nelle pellicole di Pyun. Qui pare essersi concentrato il più possibile nel tenere lontano lo spettro della noia da un lavoro che in mano ad altri gli avrebbe svolto il tappeto rosso sotto i piedi. Missione pienamente raggiunta, grazie anche ai continui rimandi a film decisamente più importanti, ma poca roba per un uomo che ci aveva abituato alle fantasie di cartapesta più sfrenate.


lunedì 25 luglio 2011

Squarci sulla dimensione nerd alla Biennale di Venezia







Niente da fare, quest'anno la Biennale di Venezia la vedrò solo attraverso il monitor (dopo oltre 10 anni di presenza fissa). Peccato perché, a parte il clownesco padiglione Italia (a differenza di quello bomba della scorsa edizione), di roba interessante pare che ce ne sia parecchia. Come l'installazione The Murderer of Your Heritage del 31enne argentino Adrián Villar Rojas. Oltre 250 metri quadrati di enormi sculture in cemento, devastate da una misteriosa calamità. Da come ha ridotto questa metaforica sala giochi della memoria l'artista pare non aver ancora assimilato bene il passaggio alla vita adulta (anche se professa di aver realizzato un'opera sulla coesistenza di universi paralleli...). Tanto che, l'ultimo giorno della mostra, l'intera opera sarà ridotta in polvere e mai più riproposta.

giovedì 21 luglio 2011

Come si monta un trailer: Driver di Nicolas Winding Refn



Non sono tra i fortunati che se lo sono già potuto vedere ai vari festival (e non me lo vedrò di certo in un francobollo sul monitor, quindi aspetterò con tutta calma il DVD o la proiezione al cinema). Questo mi da il privilegio di godere come un riccio a ogni trailer rilasciato. E questo qui sopra, in tutta sincerità, è da svenimento.

Crimson Bolt presenta: The Holy Avenger





Che Super sia un filmone ormai l'hanno capito tutti. Ma del mitico The Holy Avenger cosa mi dite? Dopotutto è il fumetto che spinge Frank Darbo a diventare Crimson Bolt, mica robetta!


James Gunn ha pensato bene di mettere on line le scansioni del fumetto utilizzato durante le riprese. Trovate le tavole mancanti qua.

mercoledì 20 luglio 2011

Konnichiwa Bitches I'm the New Motherfuckin CEO



Immenso. Poi un giorno qualcuno mi spiegherà come fanno quei maledetti comici anglofoni a trasformare puntualmente la volgarità in sublime turpiloquio.

martedì 19 luglio 2011

Cartoline dal Bandcamp: Cognitive Dissonance





Come ho già detto è un periodo bello pieno. Questo non mi impedisce di segnalarvi la perla qui sopra, per ora mio personalissimo disco dell'anno. I meriti sono i soliti: intransigenza, ignoranza, menefreghismo assoluto. Menzione d'onore anche per la piattaforma a cui si appoggiano i Nostri: Bandcamp. Zero chiacchiere, amicizie, profili funambolici, classifiche dettate da chissà quali parametri, twitter, cazzi e mazzi. Solo musica e ogni strumento possibile per poterla diffondere (streaming gratuito con sistema di condivisione, versioni scaricabili a pagamento, link diretti agli store on line di ogni band,...). Grandioso, ci si perdono le ore a vagare tra una bomba e l'altra (vedi questa, questa o questa).

venerdì 15 luglio 2011

The Underwater Love: un trait d'union tra Tokyo Gore Police e In the Mood for Love



Prendi uno dei più incensati autori pinku-eiga di sempre, forniscigli un cast tecnico che vanta il regista di Tokyo Gore Police come responsabile degli effetti speciali e sua maestà Christopher Doyle (collaboratore abituale di Wong Kar-wai, Gus Van Sant, Pen-Ek Ratanaruang, Peter Chan oltre che autore dell'immortale paletta colori di My Heart Is That Eternal Rose, capolavoro di Patrick Tam) a gestire la fotografia. Poi dagli solo cinque giorni per girare un soft-porno musicato da una electro band tedesca.



Riflettete su quello che avete letto e provate a domandarvi ancora una volta perché la gente si interessi tanto al cinema asiatico.

mercoledì 13 luglio 2011

Fanzine black metal per un pubblico white trash: Hate Fuck




Give Up è un tizio piuttosto attaccato alle vecchie abitudini. Nonostante ormai certi strumenti siano accessibili a tutti, lui preferisce continuare ad affidarsi alla nostalgica combo colla+forbici+fotocopiatrice. Partendo prevalentemente da fotografie scattate da lui stesso, tutte dallo spiccato (e inedito) gusto a metà tra street art e black-metal. Con il passare degli anni la sua arte ha trovato diverse applicazioni, dalle affissioni clandestine per le strade di Austin (TX) alle copertine di dischi (fuori anche per Deathwish, mica bruscolini) e abbigliamento. Un percorso artistico sghembo e irrispettosamente trasversale, capace di unire sotto lo stesso ombrello sottoculture e scuole di pensiero altrimenti agli antipodi. Tutto, rigorosamente, all’insegna della bassa fedeltà.



Hate Fuck è la fanzina autoprodotta da Give Up, composta prevalentemente dagli avanzi delle sue produzioni ufficiali. Fotocopiata (con tanto di bordino bianco) come vuole la tradizione più underground, senza per questo rinunciare a qualche inserzione da volumetto d’arte (pagine trasparenti, serigrafie, inchiostri metallizzati). I contenuti spaziano per tutto il solito armamentario a base di caproni e croci rovesciate, passando per fotografie di tralicci, armi da fuoco, scene di vita da suburbia e animali incazzosi. Hate Fuck pare partire dal cartello in apertura al Gummo di Harmony Korine, con quel gotico da esoterismo nord europeo a sovrapporsi allo squallore del white trash statunitense.



Una versione più sincera è profonda delle provocazioni alla Odd Future Wolf Gang Kill Them All, tanto pompate dalla stampa indie\patinata statunitense. Perfetto per capire al meglio la poetica di Give Up il volume mammoth da 434 pagine Collection 1, ristampa ragionata e commentata (da lui stesso) delle prime sette uscite della fanzina (su 10 totali). Una maratona tra bianchi e neri sgranati, intarsiati da esoterismo spicciolo e malessere provinciale. Spesso puerile e irrisolta nella sua urgenza di risultare artistica, molte altre volte perfetta nel definire un’estetica nera e paludosa.



Give Up è l’anello di congiunzione tra i vecchi flyer grindcore, le suggestioni stradaiole più in voga, la moda del satanismo da quattro soldi e l’autoproduzione un pochetto snob. A sua discolpa non ci si può non accorgere che nei territori del trendy ci è finito perché gli è cambiato il mondo attorno, non viceversa. La genuinità del texano è palese. E poi ci vuole veramente poco per comprarmi: basta farcire il pacco degli acquisiti con poster fotocopiati, spille, adesivi e cartoline in omaggio. Proprio come si faceva una volta, quando si compravano i vinili delle peggio band da una parte all’altra del pianeta.






lunedì 11 luglio 2011

GlitchHiker, il videogioco che non esiste più





Vi piacerebbe perdere qualche ora con il giochino qui sopra? Mi spiace, ma non è più possibile. GlitchHiker nasce infatti come videogame performativo. Peggiore la partita, maggiore la quantità di errori generati dal software (i famosi glitch). Fino all'estrema conseguenza: l'auto-cancellazione del videogame. Cosa, guarda caso, puntualmente avvenuta. Il video sopra è, a oggi, una delle pochissime testimonianze dell'esistenza del programma, presentato alla Global Game Jam 2011 (dove ha vinto premio della giuria e del pubblico).

venerdì 8 luglio 2011

Beavis & Butt-head live action: Fubar 2 di Michael Dowse (Can/2010)



fubar or FUBAR
(US, slang) Fucked up (or, bowdlerized, fouled up) beyond all recognition (or beyond all repair).
(US, slang) Fucked up but all right (flawed but working nonetheless).


Prendi una narrazione alla Arrested Development. Sostituisci Michael Bluth con due Beavis & Butt-head ultratrentenni. Ambienta il tutto in una raffineria di Fort McMurray (Canada). Da questi presupposti sviluppa la classica trama da fiaba natalizia, con un cancro ai testicoli al posto delle varie apparizioni spettrali. Questo, in pochissime parole, è Fubar 2.


A tratti sgradevoli come solo un Sacha Baron Cohen era riuscito a essere, le nuove avventure di Terry e Deaner ci arrivano come più vere del vero. Complice una costruzione dei personaggi perfetta, evidentemente modellata sulle esperienze personali degli sceneggiatori (il regista e i due protagonisti). Fubar 2 finisce per coinvolgere proprio per la sua capacità di fondersi con l’adolescenza media di ognuno di noi. I litigi con il migliore amico appena fidanzato (o viceversa), le prime (traumatiche) esperienze nel mondo del lavoro (sopratutto se extra-ufficio/studio), le sbronze, le stupidaggini, il compare di bravate sempre oltre il limite dell’autodistruzione, le droghe e il futuro che, tutto d’un tratto, diventa presente. Volenti o nolenti.


Passaggi comuni a un larga fetta della popolazione, solitamente vissuti sulla propria pelle dai maschietti e osservati dall’esterno dalle ragazze della compagnia. E proprio l’empatia che si viene a creare con lo spettatore medio permette al regista Michael Dowse di prendersi la libertà di un finale conciliante e, a modo suo (molto a modo suo), dolce. Per quanto mi riguarda, pensare alla mia adolescenza e scriverne un film con una conclusione tragica non sarebbe esattamente la mossa più onesta che potrei fare. Meglio ricordare quei tempi sconsiderati e convincersi che, nel bene e nel male, se oggi siamo persone felici deriva anche da come li abbiamo vissuti.


Tornando alle caratteristiche più prettamente filmiche siamo agli antipodi dei vari Old School o Una Notte da Leoni. L’umorismo pone l’accento sull’indole autodistruttiva dei nostri eroi, ritraendoli spesso e volentieri in condizioni rovinose. A differenza delle pellicole di Todd Phillips (come in qualsiasi altra commedia statunitense sul genere) non c’è redenzione per Terry e Deaner. Le droghe e l’alcool si consumano sullo schermo, senza moralismi. Spesso sono parecchio divertenti, altre volte hanno conseguenze molto meno piacevoli. L’ignoranza monumentale dei protagonisti fa ridere proprio per via della sua ingiustificabile forza d’urto e dell’imbarazzo che questo provoca allo spettatore. Non ci sono dialoghi da imparare a memoria o spezzoni da caricare da YouTube. La morte del cool.


Il minimo che ci potevamo aspettare da quei due perdenti sulla locandina.


Da segnalare un meraviglioso omaggio al compianto Ronnie James Dio, esilarante e triste (come tutto il film) allo stesso tempo.



mercoledì 6 luglio 2011

Punk, birre magiche ed editoria canadese: Black Mass di Patrick Kyle




In rete lo si definisce come il miglior fumetto indipendente canadese. Black Mass racconta le bizzarre avventure di Turdswallo Blackteeft nel mondo del punk magico (giuro!), esce fotocopiato in b/n e sfoggia una bella copertina serigrafata. Per il resto è il tipico fumetto disegnato appositamente male, strumento privilegiato dai moderni fanzinari per camuffare un’invidiabile coerenza creativa. Folle la sceneggiatura, assurdi i disegni, inintelligibile il messaggio. Si ride parecchio e si respira a pieni polmoni quell’atmosfera da cialtroni artsy fartsy della prima metà degli anni ’90. Anche gli stessi protagonisti paiono non aver nulla di meglio da fare se non puzzare, bere e partecipare ad annoiati raduni musicali. A tutto questo si innesta una delirante trama fantasy a base di malvagi spiriti alla ricerca di nuovi corpi da occupare, mistici manufatti da recuperare (una bottiglia di birra capace di tramutare chi ne beva il contenuto nel punk perfetto) e un sacco di altra roba fuori contesto (e spesso incomprensibile, viste le tavole). Onestamente il tutto potrebbe risultare ancora più ficcante con qualcuno che limitasse l’autore Patrick Kyle, spesso e volentieri fin troppo sopra le righe.


La realtà è che siamo in pieno territorio Vice-generation (magazine che, guarda caso, nasce proprio in Canada), quindi di un reale miglioramento non frega niente a nessuno. Per quanto Black Mass sia piacevole e divertente, sicuramente valevole dei 5 dollari investiti, siamo lontani dal genuino senso di sfida alle major di un The Adventures of Dr. McNinja. Uno dei pochissimi eredi di quella formidabile generazione nata con la coppia Kevin Eastman\Peter Laird e proseguita con l’avvento di Maestri seminali come Stan Sakai. Non per nulla quello di Chris Hastings è un progetto partito come orgogliosa autoproduzione e ora, alla faccia di tutti i detrattori, esce con il bollino Dark Horse in copertina. Mentre l’autore sceneggia per Marvel (su Deadpool).


Quello di Black Mass invece è un underground che si crogiola nel suo status quo, senza antagonismo ma senza neppure puntare al mainstream. Lo si potrebbe quasi definire un genere a sé, criticabile quanto si vuole eppure dotato di una fisionomia e di un’identità inconfondibili e ben ratificate. Una trasparenza di carattere. Non la fanzina grindcore indonesiana additata come rip-off per aver piazzato 11 copie, e neanche l’autoproduzione snob che (zitta zitta) punta alla ribalta dei salotti buoni. Proprio come i suoi protagonisti Black Mass veste un ruolo di ribelle senza fare nulla per meritarselo. E senza porsi, per questo, nessun tipo di problema.

lunedì 4 luglio 2011

E se Haneke girasse il remake de L'attimo fuggente? Confessions di Tetsuya Nakashima (Jp/2010)



Confessions è la prova cristallina che non si guarda mai abbastanza cinema giapponese. In nessun altro paese al mondo sarebbe stato possibile girare un rape’n’revenge di estrazione autoriale capace di condensare tutto il grosso della trama nella prima mezz’ora (un lunghissimo monologo) e di spendere la restante ora e dieci nel raccontare le conseguenze di quei primi, laceranti minuti. Senza contare che almeno la metà del film in questione è girata al rallentatore. E il resto ha la voce off. Tutto contraddistinto da una cura formale al limite del maniacale, sospesa tra clip musicale e la video arte di Jesper Just. Mica male da un regista conosciuto per quella divertente sciocchezza di Kamikaze Girls (di cui mi ricordo solo una parodia geniale degli Yakuza Papers di Fukasaku) e per il già più memorabile Memories of Matsuko.


Confessions è una storia di vendetta lenta e glaciale, agli antipodi di quelle portate avanti dalla furia di Meiko Kaji nei suoi film. Già il fatto che le vittime di un simile trattamento siano ragazzini di 13 anni (a loro volta boia di una creatura ancora più giovane) dovrebbe far riflettere sull’essenza di questo lavoro. La sensazione è quella che il regista Tetsuya Nakashima voglia rimanere sospeso tra l’estetica dell’amoralità di un Park Chan Wook e lo sguardo clinico sul male di Haneke, tutto all’interno di un contesto ricco di risvolti politici come il sistema educativo giapponese. Il risultato è un film fin troppo aderente al ruolo che vuole ricoprire (il piccolo genio cerebrale e inquietante). Perfino la sceneggiatura a prova di bomba (tutto quello che succede nel film trova motivazioni e spiegazioni nel corso della prima mezz’ora, chirurgicamente) pare quasi un fardello più che un punto a favore. Poi ci sono i picchi visionari, dalle inquadrature della pioggia al rallentatore alle esplosioni mandate al contrario. Gli stacchi comici messi lì solo per chiuderti lo stomaco, le immagini sfuocate, la pellicola invecchiata accanto all'altissima definizione (a immortale una fotografia da set fotografico in sala operatoria). I lunghissimi feedback di chitarra a fare da colonna sonora e un inedito dei Radiohead per i picchi di lirismo (niente battute, funziona da Dio).


Il risultato è un film della potenza di una bomba atomica, raffinato in ogni suo particolare e che scorre velocissimo, nonostante un montaggio tutto basato sulla sospensione e una sceneggiatura che non si fa problemi a rimbalzare avanti e indietro come una pallina da ping-pong. Apprezzabilissima l’assenza totale di morale o moralismi. Si finisce per provare empatia per un infanticida e si condanna la sua aguzzina. Ancora una volta ci ricordano come il male abbia sempre base nel nostro passato.


E il problema dove sta? Sta nel fatto che il rape’n’revenge nasce come filone bestiale, destrorso e volutamente fuori controllo. Da questo punto di vista Confessions si collega direttamente alla trilogia della vendetta del già citato Park Chan Wook. Che però, si noti bene, aveva già pagato il suo pegno ai classici del genere con il primo capitolo della sua opera. Sympathy for Mr. Vengeance non era che pura furia nichilista, un plotone d’esecuzione dove tutti finiscono a terra. La base da cui si sarebbe sviluppato tutto il discorso indispensabile per arrivare alla sua controparte femminile. Partendo da un film onesto e brutale il regista sud coreano è ginuto al suo capolavoro, passando per il filtro commerciale del capitolo intermedio. Tetsuya Nakashima scavalca questo passaggio e si dimentica di Christina Lindberg, di Enrico Maria Salerno, dei coniugi Collingwood, della prigioniera #701 e si passa subito alla Jeanne Moreau della Sposa in Nero di Truffaut. Tradotto per chi non sa leggere tra le righe: manca la pancia. Manca Fabio Testi che agita come un primate il suo fucile a pompa ancora fumante. Manca il “That's okay. I don't either” di Dustin Hoffman. Manca il piacere (solo quello) di vedere qualcosa di fondamentalmente sbagliato andare come dovrebbe andare. Motore primo, questo, di tutti i film sulla giustizia sommaria.


Quello che rimane alla fine è un gran lavoro dove e forma e contenuto si sposano alla perfezione. Proprio come il suo protagonista anche l’insieme pecca di supponenza e finisce per mancare il bersaglio. Poco male perché, a parte il vago retrogusto di compitino studiato a tavolino, si perde il conto dei momenti da mascella a terra già pochi minuti dopo l’avvio della pellicola. Puro humus per il cervello. Da recuperare assolutamente.