lunedì 5 settembre 2011

Forse era meglio dire di no: The Yellow Sea di Hong-jin Na (Kr/2010)



Nella ratificata mitologia del noir l’errore e/o la scelta irreversibile dalle conseguenze catastrofiche hanno sempre occupato un posto di riguardo. Fin dai neri cinematografici degli anni '40 il motore primo di tensioni o angosce rimaneva il rimorso di non essersi fermati qualche centimetro prima dell’orlo del burrone. Questo senza contare i numerosi esempi letterari, dal capolavoro Il Campo di Cipolle di Wambaugh fino a perle come Corri Uomo Corri di Himes Chester, Pomona Queen di Nunn Kem (di cui voglio ricordare il geniale estratto in quarta di copertina “A quel punto della vita, Dean aveva già visto un certo numero di morti. Però per la maggior parte assomigliavano ben poco a quello che il biker si teneva in salotto. Quello era nudo e pallido, disteso su un letto di ghiaccio in un grosso congelatore rosso della Coca-Cola, con la scritta in bianco su di un lato: Le cose vanno meglio con la Coca”) o il seminale Gli Amici di Eddie Coyle scritto da George “Ho-inventato-i-dialoghi-moderni” Higgins.


The Yellow Sea si inserisce in pieno in questa tradizione, ma nel classico stile sud coreano fatto di fatalismo e redenzioni mancate. L’opera seconda di Hong-jin Na, già regista dell’ancora più bello The Chaser, si prende tutto il tempo del mondo per gettarci nel pieno della vicenda. La storia parte dalla triste vita di Gu-Nam, taxista nella regione di Yanji. Un simpatico accrocchio di palazzoni fatiscenti situato tra Corea del Nord, Cina e Russia. Indebitato e lontano dalla moglie decide di fare il passo più lungo della gamba. Accetta un lavoro come assassino in Corea del Sud, con la garanzia di ogni avere ogni debito saldato e di potersi finalmente ricongiungere con la dolce metà.


Naturalmente tutto va per il peggio e il Nostro si ritrova a lottare per la sopravvivenza. Fino al nerissimo e amaro finale.


Nonostante si tratti di un lavoro dalla natura elefantiaca (quasi 3 ore di film con moltissime location e personaggi) e dai frangenti estremamente violenti, quello che contraddistingue The Yellow Sea è la sua natura sommessa e, paradossalmente, minimale. Una sola scena dal taglio smaccatamente spettacolare, nessuna scena madre o climax testosteronici. Solo un uomo in fuga, fuori posto e lontano da ogni suo affetto, sommerso da fiumi di sangue versati in brutali scene di combattimento. Prive di ogni carisma coreografico o patinatura arty. Se quello che cercate è tutto questo allora Hong-jin Na ha diretto il vostro prossimo film preferito. Nessuno spiraglio di speranza, colpo di luce o via di fuga. Pare di essere dalle parti di un Soi Cheung dalla mano maggiormente controllata, meno preso a dipingere un mondo putrescente e più interessato alla sguardo vuoto e vacuo di chi si è appena reso conto di essere con le spalle al muro. Siamo agli antipodi della rassicurante ultraviolenza di un The Man From Nowhere (per quanto questo sia un altro splendido esempio di noir coreano), con i suoi personaggi caricaturali e dal taglio fumettoso. L’unico difetto riscontrabile è proprio figlio di questa scelta coraggiosa di mantenere per forza un basso profilo. La totale assenza di colpi di reni per 150 minuti di film trasmette benissimo rassegnazione e mancanza di prospettive, ma potrebbe rendere il tutto sinistramente piatto e privo di appeal per chiunque non riesca a entrare completamente nello spirito della storia.


Ma è un peccatuccio veniale, per di più funzionale alle meccaniche di scrittura. Poca roba rispetto al mare di nero a cui si va incontro schiacciando il tasto play.


1 commento:

odderflip ha detto...

l'avevo accantonato proprio perché l'inizio mi era parso troppo volutamente sciatto. poi dandoti il credito che meriti me l'ho recuperato. come giustamente dici la durata gioca a sfavore ma vale la pena. la scena poi, a montaggio incrociato, della costruzione mentale dell'agguato omicida è un pezzo di cinema che mi ricorderò. thx