lunedì 9 gennaio 2012

Revenge: A Love Story di Ching-Po Wong (HK/2011)



Quando, fra 50 anni, si studierà il cinema dell’ultimo paio di decenni si dovrà per forza di cose stilare una lista dei mali che lo hanno afflitto. E, tra remake, reboot e adattamenti vari, non si potrà neppure far finta di scordare il famigerato fenomeno del  twist ending. Mirabolante artificio di sceneggiatura capace di rendere inutile qualsiasi film dopo la prima visione (se non addirittura dal trailer). Pratica ben diversa dalla nobile arte del contro-finale (che non significa finale aperto), noto invece per il potere di amplificare (se utilizzato come si deve) la potenza dell’opera di base. Valgano come esempio su tutti le conclusioni di Taxi Driver e C’era Una Volta in America, di cui si sta ancora discutendo circa il reale significato.  


Alla stessa maniera Revenge: A Love Story cambia tutto il suo essere in base a quale delle sue conclusioni si prenda come valida e a quale invece gli si attribuisca valore allucinatorio o di pura immaginazione. In entrambi i casi l’opera avrà una sua dignità e una costruzione interna coerente, andando così a prendere le dovute distanze dallo sterile giochino del ribaltone finale. Anzi, considerando il dubbio instillato in ogni spettatore si può dire che la conclusione del film non corrisponda allo scorrere dei titoli di coda, quanto alla volontà del singolo fruitore di porre un fine a tutte le speculazioni del caso.    


Una ragazza rinchiusa in una casa di cura viene stuprata. L’unico disposto a lottare per fare giustizia sarà un povero venditore di panini al vapore, da sempre innamorato di lei. Da questo presupposto si sviluppa una trama nera come la pece, memore di quanto fatto in precedenza da Soi Cheang nel suo straordinario Love Battlefield. Ammettiamolo: quando vogliono i registi di Hong Kong si ricordano ancora di essere tutti figlioli spirituali del Johnny Mak di Long Arm of the Law (1984), lasciando però da parte la carica politica per concentrarsi  su storie d’amore tormentare e protratte verso il baratro della tragedia. Aspettatevi quindi continui giochi al ribasso e, se le cose potrebbero andare peggio, sappiate che lo faranno. Eccome se lo faranno.


La regia dimostra tutta la sua intelligenza riuscendo a far convivere una fotografia minimalista e povera con diverse impunture barocche e di un eleganza tanto pregna di melodramma da sfiorare in più di un caso il grottesco. Quasi una parodia sghemba e fuori sincrono di Lars Von Trier. Le trovate a effetto vengono distribuite con parsimonia, riuscendo ad arrivare sempre al punto grazie proprio al contesto grigio e statico in cui vengono inserite. Il senso di malessere è poi amplificato da una colonna sonora rumorista e insinuante, priva di un vero e proprio tema. Il tappeto sonoro non crea rassicuranti punti di riferimento, andando piuttosto a instillare un’atmosfera soffocante e da cui pare impossibile sfuggire. Chi si aspetterà una sorta di Taken tra fuori-casta rimarrà deluso. Il ritmo sincopato, la totale assenza di dialoghi tra i protagonisti, il numero limitatissimo di personaggi (comparse comprese) e location giocano tutte a favore di un cinema crudo e sgradevole. Tanto per ricollegarsi ancora una volta ai bei tempi andati del noir alla cantonese, siamo più vicini a un Dangerous Encounters of the First Kind (con le sue facce storte, le anatomie rachitiche e la città come minaccia e cimitero a cielo aperto) che alla svolta ultrapop dell’arcinoto Infernal Affairs (Andy Lau strafigo in completi leccati, cellulari al posto delle pistole e un cielo perennemente azzurrissimo).  


Ching-Po Wong avvolge questo microcosmo di dolore e sofferenza in una cappa vagamente fatalista, spolverando il tutto di metafore religiose. Il senso di minaccia e oppressione se ne esce ulteriormente rafforzato e spesso si avverte l’atmosfera del grande nero statunitense degli anni ’50. Quando la sventura si accaniva in maniera tanto gratuita e compiaciuta sui protagonisti di questi film a basso budget da farli derivare in più di un’occasione nell’horror (Detour di Edger G. Ulmer).  


Genere in cui, guarda caso (?), sfocia in maniera indiscutibile uno dei due finali di Revenge: A Love Story. Strano, eh? 

1 commento:

giovanni ha detto...

sembra molto molto interessante. dove si può vedere questo film? è sottotitolato in inglese?