lunedì 26 marzo 2012

BUUURP! Black Breath - Sentenced to Life (Southern Lord/2012)



Spero in futuro di non avere mai l’occasione di vedere i Black Breath dal vivo, soprattutto dopo questo Sentenced to Life. Perché, dopo una tale scarica di bestialità e ignoranza, mi seccherebbe non poco trovarmi davanti quattro bamboccioni da Warped Tour. Diciamo che confido nelle capacità di scouting della Southern Lord, da sempre una delle etichette più attaccate al concetto di credibilità dell’artista. In qualsiasi caso, delusioni live o meno, i cinque di Seattle il gran disco alle stampe lo hanno dato (e lo si capisce fin dalla stratosferica cover). Un grumo putrescente fatto di Entombed, d-beat, Dismember, black metal e HC puro e duro. Tutto scartavetrato dalla solita, prodigiosa, produzione di Kurt Ballou. Cercate originalità? Qui non ne troverete neppure una goccia. Vi accontentate di ritmiche pesanti come un maglio di ghisa, chitarre appena estratte da un altoforno e titoli dell’aulica levatura di Feast of the Damned? Allora ecco un disco che non dovete lasciarvi sfuggire. Sorprendente come oramai questo tipo di discorso lo si faccia sempre più di frequente, come se dopo stagioni di ricerca smodata oggi come oggi siano ancora i riff grandi come una cava di granito a far pizzicare il senso di ragno. Anni passati a scrivere articoli dove si cercava di infilare per forza di cose il patetico giochino di parole “metallo pe(n)sante”  e nel 2012 un dischetto come questo riesce a mettere in ombra giganti del calibro di Meshuggah e Spawn of Possession. E non c’è nulla di male. Viviamo in tempi in cui l’impalpabile ha ripercussioni ben più che concrete sulla nostra vita.  Nulla di più normale quindi della fuga in un salutare iper materico in fase di intrattenimento. Oppure ne abbiamo semplicemente piene le palle e un lavoro come questo Sentenced to Life da la stessa soddisfazione di un rutto da australopiteco tirato in ufficio dopo aver consegnato le dimissioni. Tutti hanno un amico che fino a ieri si instupidiva ascoltando in loop la discografia dei Pungent Stench mentre oggi ascolta solo i Real Estate. Prendetelo alla sprovvista lanciando a volume 11 una traccia qualsiasi di questa bomba. E ditegli che voi no, certe abitudini da rozzo bifolco non avete proprio intenzione di perderle.

giovedì 22 marzo 2012

E' uscito Players 13



E dentro ci trovate un mio articolo sulla new-wave della Image Comics. Lo potete sfogliare qui.

Chi li avverte?


Esce in questi giorni il catalogo The Art of Videogames, celebrazione della megamostra a tema videoludico allestita allo Smithsonian American Art Museum. Ora, considerando che:


 
1) è il secondo evento di portata mondiale dopo la scorsa Biennale di Venezia a mettere sullo stesso piano videogiochi e arte (quindi gli accademici li abbiamo),
2) ho letto la news su di un sito ultrafighetto specializzato in trend e mode (i trendsetter pure),
3) sempre in questi giorni il raffinato scrittore Francesco Pacifico pubblica sul sito di Studio un lungo (e bellissimo) articolo sul videogioco Journey per PS3 (gli intellettuali anche),


 
direi che a questo punto qualcuno deve avvertire anche i videogiocatori. Mica possono essere gli unici a non sapere che il loro hobby è diventato una cosa da grandi.

mercoledì 21 marzo 2012

Astron-6 vi voglio bene: Father's Day di Astron-6 (US/2011)



Partiamo elencando i lati negativi di questo Father’s Day (clicca per il trailer). Anzi, IL lato negativo: siamo ancora alle prese con un finto grindhouse. Arricchito da un sacco di elementi presi paro paro dalla poetica del binomio Tarantino/Rodriguez, per giunta. Quindi preparatevi all’ennesima pole-dance, alle riprese di piedi e alle stripper guerriere. Una noia mortale. E allora perché darsi la briga di cercare questo film e investirci una sera?

 
Perché è scritto (e interpretato) da quei cinque geni degli Astron-6 e, soprattutto, prodotto dalla Troma. Che rimane a oggi un punto di riferimento per quanto riguarda il trash più intelligente e stratificato. Dalla renaissance iniziata con il fenomenale Tromeo & Juliet fino all’ultimo Poultrygeist quello di Lloyd Kaufman è un percorso autoriale dotato di tutti crismi. Basti la visione di Terror Firmer, uno dei manifesti più caustici e irriverenti del post-modernismo, per rendersi conto che oltre ai budget inesistenti la casa del Vendicatore Tossico offre molto di più (tra le altre cose penso di essere l’unico in Italia a possedere il film in questione in triplice copia originale). Nessuno in questo momento è in grado di proporre un cinema così genuinamente punk, fatto di provocazioni grevi come di puro e incondizionato divertimento. Slegato da ogni tabù, ricco di una sessualità libera e godereccia. Spesso molto più intelligente di quello che si pensi. Se non si fosse ancora capito io il buon Lloyd lo metto sull’altarino accanto a John Waters e Paul Bartel (anche se questo è riuscito a guadagnarselo con un solo, epico, film).


 
Questo non toglie che la Troma abbia distribuito negli anni un sacco di merda, una roba che neanche il Roger Corman degli anni d’oro. Motivo per cui a oggi le sue produzioni vengono sempre guardate con sospetto. Naturalmente noi true defender non ci siamo mai piegati a una simile mancanza di fiducia, andando in solluchero alla notizia che ben diecimila dollari (mica bruscolini) erano passati dal conto della coppia Kaufman & Herz a quelli dei cinque folli canadesi. Diventati "celebrità" in tutto il mondo grazie ai loro corti deliranti. E con un simile faraonico budget chissà che capolavoro ne sarà uscito…


 
A tale proposito torniamo ora al primo paragrafo, quello dove elencavo i difetti. Ecco, sappiate che aldilà di questi inspiegabili tocchi di populismo (che magari volevano essere proprio una parodia di questa tendenza, senza però riuscirci fino in fondo) tutto il resto di Father’s Day è assolutamente fuori controllo. Ciccioni con il vizio di violentare poveri padri prima di evirarli a morsi (tutto documentato con generose riprese ravvicinate), satanismo, incesti, un sacco di peni, un sacco di tette, poliziotti deviati, prostituzione maschile, demoni di gomma,… E un sacco di idiozia di tipica matrice Tromesca. Quella che ti permette di scrivere, dirigere e interpretare totali scemenze con una serietà che neanche Orson Welles sul set di Citizen Kane. Il risultato è ben più offensivo (e quindi divertente) della gran parte di tutti quegli innocui finti exploitation che affollano i cestoni del Mediaworld. I ragazzi di Astron-6 ci mettono le loro facce da idioti (vedi la foto sopra), l’umorismo surreale, un pugno di uscite geniali (roba da applausi) e una genuinità che rende passabile più di un difettuccio di forma. Amo così tanto questi ragazzi che gli passo anche la colonna sonora ottantiana. Seppur fantastica meno gasante dei consueti pastoni punk’n’core Tromeschi a cui ci eravamo abituati (in Terror Firmer erano riusciti a ficcare Melvins, Vandals, Sick of it All, Vision of Disorder, le Lunachicks – che comparivano anche nel miglior cameo di sempre – e un sacco di altra gente figa).


 
Se non lo avete ancora capito Father’s Day è una robetta piccola così, ma è il miglior party-movie dai tempi del Vendicatore Tossico 4 (mi immagino cosa potrebbe essere al cinema). Esilarante senza strizzatine d’occhio, autentico come un pezzo di asfalto, incosciente come una serata tra tardo-adolescenti ubriachi.

lunedì 19 marzo 2012

Star Wars meets A Game of Thrones: Saga 1 di Vaughan e Staples



Sulle pagine di questo blog non ho mai nascosto il mio amore per Brian K. Vaughan. Un autore di certo carente su molti aspetti - i suoi plot, per esempio, non sono certo un'esplosione di funambolismi d’avanguardia  - eppure quasi impareggiabile quando si tratta di dare vita a nuovi personaggi. L’umanità che Brian riesce infondere alle sue creature è materia oscura per gran parte degli sceneggiatori in attività, troppo concentrati a immaginarsi chissà quali labirintici sviluppi narrativi piuttosto che limare parola per parola le linee di dialogo. Evitando con cura spacconate e one liner da straight to video per dare spazio a voci più vere del vero, ognuna dotata di un suo lessico ben specifico. Naturale che per arrivare a un livello di raffinatezza  tale ci debba essere alla base una personalità fittizia sfaccettata quasi quanto una reale. Si provi a ripensare alla conclusione di Ex-Machina, a tutti gli errori commessi dai Runaways, alle insicurezze di un personaggio come Yorick Brown. Quelli che abbiamo sotto agli occhi non sembrano affatto personaggi  bidimensionali da romanzetto pulp. Se Alan Moore, nel suo noto manuale di scrittura, indica come principio primo della creazione di una bella storia l’invenzione di un mondo tangibile e più dettagliato possibile, lo sceneggiatore di Cleveland potrebbe rispondere che personaggi interessanti garantiscono a loro volta vicende altrettanto appassionanti. E questo è forse il principale motivo per cui, alla notizia di una nuova space-opera firmata dal Nostro, l’hype sia schizzato subito alle stelle.


 
Parliamoci chiaro: di saghe lunghe e fantasiose ne si trova un sacco, eppure poche rimangono bene impresse nell’immaginario collettivo. Gli effetti speciali si sono fatti sempre più fragorosi, i linguaggi più transmediali, le influenze più disparate e il fruitore sempre più preparato. E invece il carisma dell’eroe, che una volta era alla base di tutto, lo si dimentica in fondo alla lista delle cose importanti (non parliamo poi del cattivone di turno, ormai una specie in via di estinzione). Siamo messi talmente male che se qualche illuminato decide di buttare sul piatto un protagonista degno di tale nome questo diventa immediatamente una colonna fissa del nostro pantheon (le ultime vere icone vengono quasi tutte dalla produzione televisiva, mentre il cinema latita e il videogioco pare ancora in cerca del nuovo Gordon Freeman o Snake). Pensare a una serie regolare di questo genere senza una figura centrale forte e capace di diventarne sineddoche avrebbe rischiato ancora una volta di lasciarci una grande storia senza agganci per la nostra memoria, con conseguente frustrazione nostra e degli autori. Ecco perché Saga era atteso da tutti come una sorta di ritorno a un salutare classicismo riadattato ai nostri giorni (un po’ come era stato All Star Superman).


 
Versati i consueti 2 dollari e 99 a Comixology (che bello il futuro! Brucia un tantinello, ma cosa ci vuoi fare?) mi appresto alla lettura di questo primo numero di Saga. L’immaginario è una miscela piuttosto curiosa di fantascienza HC e fantasy. Lo stesso Brian aveva definito questa sua nuova opera come il punto d’incontro tra Star Wars e Trono di Spade (diciamo che il ragazzo sa come vendersi). L’alchimia funziona, anche se qualche trovata pare davvero fuori tempo massimo (i tizi con il televisore a tubo catodico al posto della testa). Tanto per confermare quello che già pensavo di questo scrittore tutto il lungo primo numero è dedicato a introdurre i due neogenitori Alana e Marko. Resi alla grande dalla disegnatrice Fiona Staples (che si occupa anche di colori e copertine) questi due alieni dimostrano già un caratterino piuttosto spigoloso fin dalle prime battute. Paterno e protettivo (ed ex prigioniero di guerra) lui, grintosa e orgogliosa (ed ex guardia trasferita) lei. Spaventati e innamorati entrambi. Sullo sfondo del lieto evento, che occupa tutte le prime pagine, una guerra galattica senza fine. Con grande gioia del sottoscritto i ritmi sono pacati, lontani dalle meccaniche hollywoodiane che impongono eventi apocalittici ogni tot secondi (non vorrai far calare l’attenzione…). Seguendo l’esempio delle migliori serie televisive dello scorso decennio il cast deve avere tempo per esporsi e fare in modo che il pubblico gli si affezioni, garantendone il successo e l’immortalità. Ma questo può avvenire solo se si ha materiale da far emergere puntata dopo puntata. Mettendo due persone vere (anche se dotati di ali e corna) in un contesto di totale fantasia, aprendo così spiragli di luce su una serie di comportamenti ben diversi dal solito buono-più-buono-che-c’è vs cattivo supremo, la strada pare quella buona.

Mai come in questo caso sarebbe inopportuno gettare le basi di un giudizio dopo un primo numero - vista la scarsità di elementi a disposizione nonostante la lunghezza doppia del volume - eppure dopo questo sold-out istantaneo ci voglio credere ancora di più nella serie epocale. A una carica visionaria non sempre all’altezza corrisponde, come già detto, un iniezione di realismo decisamente gradevole nelle meccaniche tra i due protagonisti. Non ci resta che metterci comodi e prepararci a passare qualche anno in loro compagnia.

sabato 17 marzo 2012

[OLDIES BUT GOLDIES] A Touch of Zen di King Hu (TW/1971)



Vista la densità della settimana appena passata, che si traduce con una totale assenza di tempo da dedicare a primizie di vario genere, prendo l’occasione per parlare di un’opera datata ma su cui poggia più cinema moderno di quello che pensiamo. A Touch of Zen è il primo film cinese (di Taiwan per la precisione) a concorrere per la Palma D’Oro a Cannes e uno dei pochissimi lungometraggi marziali a poter puntare a un risultato così alto, scardinando un sacco di convenzioni sulla divisione tra presunto alto e altrettanto presunto basso. La pellicola arriva nelle sale nel 1971, dopo due anni di lavorazione, e ancora oggi risulta di un modernismo abbagliante e francamente imbarazzante per buona parte delle produzioni contemporanee.


 
Si prenda a esempio il protagonista, agli antipodi di qualsiasi stereotipo diffuso all’epoca. Ku, un ragazzo colto ed educato, ancora in casa della madre seppur ben oltre la trentina. Nonostante la famiglia lo sproni alla carriera militare lui sogna di aprire una scuola e diffondere il sapere tra le nuove generazioni. King Hu ama le scelte difficili e ci sguazza, costruendo la prima ora del film come una sorta di commedia - penso si sia capito anche dalla caratterizzazione della figura centrale di tutta l’opera - e rimandando il più possibile gli scontri fisici. La violenza e l’azione arriveranno infatti con l’introduzione della protagonista femminile, anche perché il Nostro Ku non toccherà una lama per tutti i 169 minuti di durata. Continuando sul percorso aperto con l’intramontabile Come Drink With Me il regista tratteggia una donna/guerriero dalle fattezze inconfondibili. Orgogliosa, letale, femminile senza essere la caricatura di una femme fatale (un po’ quello che è stata la bellissima Meiko Kaji per il cinema giapponese). In fuga da una condanna a morte ingiusta e del tutto arbitraria. Assieme a Yang arriveranno nella vita del giovane studioso un sacco di altri personaggi, scandendo mano a mano un melange di generi che spazia dal battibecco romantico alla deriva  spaghetti-western, fino alle capatine nell’horror e nel grottesco. Con culmine massimo nella celeberrima conclusione metafisica.


 
Alla stessa maniera della sceneggiatura anche la regia alterna un ritmo pacato e rilassato, totalmente costruito su esterni e campi profondissimi, con un montaggio di deriva costruttivista. La grandezza di King Hu sta tutta nello sfruttare tagli supersonici senza che lo spettatore perda nulla. Nell’arco di due-tre secondi succede il finimondo, con almeno una decina di raccordi ben marcati, e noi siamo riusciti a goderci ogni singola inquadratura. Il risultato di una simile padronanza della percezione è un vortice di scene action che trascinano lo spettatore senza stordirlo. Siamo ancora lontani dagli astrattismi di un The Valiant Ones, eppure stiamo assistendo alla posa delle fondamenta su cui si baserà tutto il cinema di HK degli anni ’80. Tsui Hark e, soprattutto, Ching Siu-Tung costruiranno molto del loro linguaggio sulla grammatica delle micro ellissi di King Hu, portando tutta l’industria cinematografica verso velocità d’esecuzione prima impensabili.


  
E se la forma raggiunge vette mai viste prima, alla stessa maniera la profondità dell’opera esplora territori quasi del tutto inediti. A Touch of Zen è prima di tutto un saggio sulla ricerca spirituale, sull’inutilità della violenza e sull’analisi interiore. La natura rigogliosa e preponderante, la presenza di un manipolo di monaci a fungere in diverse occasioni da pacifici deus ex machina, la scoperta da parte del protagonista di come la difesa della sua amata abbia comunque generato un numero intollerabile di morti. Nel 1978 Liu Chia-Liang stravolgerà il canone del cinema d’arti marziali, dilatando la classica sequenza di addestramento da un paio di minuti a oltre un’ora. Parlo naturalmente della 36ma Camera di Shaolin, più manifesto di filosofia che film di calci e pugni. Il protagonista entra nel monastero shaolin assetato di giustizia violenta e ne esce saggio e riflessivo. Ben poco desideroso di utilizzare le sue abilità per diffondere dolore. A Touch of Zen si basa sullo stesso meccanismo, evitando però di focalizzarsi troppo sul percorso spirituale quanto mostrandone subito frutti e conseguenze. La stupida inutilità della violenza, appunto.


 
Stare a discutere se un’idea sia condivisibile o meno è quanto mai gratuito in questo contesto, dove lo sforzo e la grazia con cui viene promulgata passano decisamente in primo piano. Prendere un cinema ultrapopolare come il wuxia, elevarlo stilisticamente ad avanguardia e costruirlo attorno a un’idea non certo semplice come la spiritualità, tutto senza scadere in facilonerie o paternalismo, è un’impresa da Maestri. Il “basso” diventa altissimo e lo fa con la semplicità che appartiene solamente a chi maneggia con estrema sicurezza materiale altrimenti troppo complesso. E se oggi riusciamo a concepire film di genere capaci di veicolare “altro” lo dobbiamo anche a questa pellicola.  

lunedì 12 marzo 2012

Magia! Magia!


E il pc non si riaccende più! Prodigi della moderna tecnologia. Appena recupero tutto il recuperabile torno anche su questi lidi. Per ora mi godo l'unica nota positiva di questa faccenda (a parte i tre/quattro giorni di totale  - e salutare - disconnessione da Internet): nello stesso negozio dove ho acquistato il mio nuovo portatile ho trovato pure We Love Katamari per soli 5 euro. In momenti bui come questi i cestoni rimangono l'unica vera certezza.

lunedì 5 marzo 2012

The King of Kong + Rocky + I Guerrieri della Notte =




Da notare che il tutto funziona perché privo di trovate prettamente comiche.
Non ringrazierò mai abbastanza Twitch per queste perle.

Poteva andare meglio: Venom di Remender e Moore



Che Rick Remender non sia l’erede di Grant Morrison lo sappiamo tutti. Eppure sono in moltissimi (me compreso) ad amare questo scrittore in costante ascesa (si parla di uno che ha esordito disegnando le copertine per i Lagwagon). Magari non dotato di uno spessore da autore impegnato (appunto) eppure stoico nel suo stile energico, vivace e asciutto fino al midollo. Quando poi lo si mette a lavorare con il collega di lunga data Tony Moore non possiamo che aspettarci il meglio. Basti pensare a quei due piccoli gioielli di Fear Agent e Franken-Castle. Di sicuro non i titoli più culturalmente stimolanti a cui ci si possa riferire, eppure capaci di intrattenere mantenendo uno standard creativo altissimo. Fumetto che esiste solo per se stesso, sia chiaro, senza nessun legame con noi o il nostro momento storico. Quella che una volta si sarebbe definita evasione pura. Ed evidentemente la cosa non deve essere proprio così sgradita ai lettori, tanto da convincere gli editor della grande M ad affidare ai due il rilancio di Venom. Uno dei tanti personaggi Marvel a non aver mai vissuto il successo che merita (nonostante lo infilino ovunque).


Con un look da guerriglia urbana (bomba) e un nuovo ospite (lo sapete tutti chi è, un Flash Thompson reduce di guerra e costretto su una sedia a rotelle) la serie parte con il turbo. Scenari realistici, cospirazioni, vecchi antagonisti rimessi a lucido (con un Jack’O’Lantern da urlo, una delle cose migliori di Moore). Tutto sembra mettersi per il meglio. E invece no, perché Rick si concentra troppo sui particolari e perde di vista la direzione principale.


Alla base della serie abbiamo un’idea magnifica, la stessa della giustamente incensata Uncanny X-Force: occorrono eroi anche per i lavori sporchi (che è sottilmente diverso da quanto fatto invece con i Thuderbolts). Da qui le origini paramilitari del nuovo Venom, praticamente un one-man-army con abbonamento vitalizio per le black-ops più pericolose, con tanto di infarinatura da spy-story ad alto budget. Grandioso il parallelismo tra l’alcolismo di Flash e la sua dipendenza dall’alieno, il rapporto tormentato con il padre e la vagonata di sensi di colpa che questo antieroe pare destinato  a portarsi addosso per un sacco di tempo a venire. Remender si rende conto di avere a che fare con l’opera più stratificata tra quelle da lui gestite sotto major e ce la mette tutta per affastellare livelli su livelli, infilando una finezza dietro l’altra. Tra montaggi paralleli dal taglio decisamente melodrammatico e richiami impensabili (tra cui uno, clamoroso, all’attentato del Papa nel 1981). Insomma, se si guarda il particolare queste pagine valgono oro. Peccato che nell’insieme pare di essere su di una fuoriserie in folle. Tante finiture di pregio per rimanere fermi al primo stop.

Complice in questa brusca frenata qualitativa anche un Tony Moore neppure paragonabile al funambolo di Franken-Castle. Il suo tratto risulta più grossolano e meno pop rispetto al solito (con l’eccezione del già citato Jack e pochi altri guizzi), forse proprio anche per esigenze di sceneggiatura. A intervallarsi alle matite interviene Tom Fowler, perfetto nel dare continuità artistica e in alcuni casi (le fisionomie) anche meglio del disegnatore principale.


Forse è ancora troppo presto per rimanere delusi e, come ogni buona serie, anche questa potrebbe richiedere tempo per ingranare. Però i ponti gettati verso il domani sembrano troppo esili. I plot a lunga gittata latitano mentre ci si perde reiteratamente in numeri composti unicamente da risse e monologhi interiori. Così le intuizioni che potrebbero rendere questo fumetto qualcosa di grande finiscono per disperdersi tra tutto il resto della fuffa che esce ogni mese. Peccato.

venerdì 2 marzo 2012

Fanculo Twitter: Le Ultime 5 Ore di Douglas Coupland (Edizioni ISBN)



Finalmente un romanzo (pubblicato da noi il mese scorso, uscito in patria nel lontano 2010) che riesce a rendere alla perfezione il concetto di tempo puntiforme. Secondo l’arcinota teoria sociologica (sviluppata, tra gli altri, anche da Bauman) si è passati da una concezione di linea cronologica priva di presente (quando penso al presente è già passato) a una vita che si concentra su un costante azzeramento della memoria. Noi siamo adesso, rimuoviamo il passato perché ci fa comodo e non riusciamo a concentrarci sul futuro per via delle troppe distrazioni (William Gibson, non proprio l’ultimo scemo, aveva riassunto questo concetto con un eloquente: “ Abbiamo smesso di fare grandi progetti, distratti da Facebook, l'iPhone, Twitter e mille puttanate televisive”. Pura religione). Non leggiamo perché dobbiamo “fare” (da reader a user, anche se si tratta solo di aggiornare il profilo FB), non produciamo perché aggreghiamo (che è più veloce) e lo spazio dedicato alla riflessione ci sembra tempo sprecato. Da questa prospettiva Douglas Coupland costruisce un romanzo di quasi 300 pagine dove non succede nulla. Solo cinque persone rinchiuse in un non-luogo (il bar di un aeroporto). A raccontarsi l’un l’altro mentre fuori infuria l’apocalisse, rappresentata in questo caso da un rialzo estremo del prezzo del petrolio (Mio Dio! Il mondo torna a essere un posto enorme, non il paesotto in cui noi post-Generazione X siamo cresciuti). E, tanto per rincarare la dose, prima di ogni nuovo capitolo un misterioso PlayerOne ci riassume quello che succederà tra qualche pagina. Così anche ORA sappiamo quello che succederà DOPO, evitandoci emozioni non previste. Aggiungiamoci un paio di personaggi inseriti praticamente a caso, sviluppo narrativo relegato nell’ultima mezza pagina del volume e una sinistra somiglianza tra i protagonisti (tutti alla ricerca di un’identità più definita rispetto alla loro mise da limbo sociale).


Detto così pare di trovarsi di fronte a un disastro. E invece tutto funziona alla grande. Vuoi per la scrittura asciutta e brillante di Coupland (i dialoghi sapranno anche di artefatto, ma ce ne sono un paio da incorniciare), vuoi per la tensione generata dalla mancanza di spiegazioni. Oppure, più sinistramente, per l’impressionante mimesi con la vita media di ognuno di noi. L’egocentrismo smisurato della nostra epoca (come siamo arrivati a concepire mezzi per fare sapere agli altri cosa stiamo facendo/pensando in ogni momento della nostra giornata? E perché pensiamo che agli altri interessi veramente?) ci fa credere di essere costantemente proiettati verso chissà quali futuri radiosi (sempre individuali, mai collettivi). Peccato che poi la stra-grande maggioranza di noi rimanga delusa, e si ritrovi a resettare la sua esistenza in continuazione (“Ora basta. Da domani cambio vita!”). Con esiti sempre più disastrosi. Vedi alla voce “ritrovarsi nel bel mezzo della fine del mondo”.


Va detto che a un’esecuzione così acuta e chirurgica non corrisponde un finale all’altezza. Un po’ troppo didascalico nel ricordarci, come un bravo e amorevole papà, che abbiamo bisogno di un grosso strappo per rimetterci in carreggiata. Si tratta comunque di un’inezia, visto che si tratta delle ultime due pagine del romanzo (svalutare tutta l’arguzia del lavoro per così poco sarebbe un po’ come ritenere certi film belli solo in virtù del twist-ending…). Quello che conta veramente è come l’idea di presente eterno venga resa con un linguaggio da sit-com. Indorando la pillola e facendoci quasi credere che questa normalità aumentata va benissimo. Se riesco a scrivere un romanzo di 300 pagine, privo di un reale plot, e a renderlo godibile e divertente (come effettivamente è) allora non far succedere nulla neanche nella vita reale non è così male. Questa è la vera intuizione geniale dell’autore: mettere su carta l’ovattato nido di bambagia in cui ci siamo (non ci hanno, ci siamo) adagiati. Bastava questo, senza pacche sulle spalle da uno che è messo male tanto quanto noi.    

giovedì 1 marzo 2012

Potevate anche invitarlo al BilBolBul: Benjamin Marra


Io adoro Benjamin Marra. Uno che non sa disegnare, non sa scrivere eppure porta avanti due serie regolari, qualche one-shot e un web comics ultraviolento di matrice techno-fantasy. Tutto prodotto e distribuito dalla sua casa editrice, la Traditional Comics. Come dice Tim Small  "Spesso Ben scrive semplicemente storie da fumetto d'avventura, da poliziesco, da fantasy, senza ironia o giochetti metanarrativi. Le racconta con una tale serietà che ti dimentichi che non stai leggendo un Bonelli o un Marvel. Ma è tutto fatto apposta, perché poi due pannelli dopo succede qualcosa di assolutamente assurdo e il tuo cervello non capisce più nulla.". Impossibile trovare parole migliori per definirlo. Nella sua magnifica cialtronaggine il Nostro si costruisce una cifra stilistica inconfondibile, una sorta di ironia derivante dall'eccesso di serietà in situazioni assurde. Non il solito esponente dei cosiddetti "fumetti disegnati male" tanto amati da hipster e salotti buoni, quindi. Troppa pancia e nessuna malizia per appartenere al genere. E nel contempo riesce comunque a risultare molto più credibile di tanti sedicenti autori underground. Ripeto, senza saper scrivere o disegnare. Gran risultato, Ben. Gran risultato.