domenica 23 dicembre 2012

Nessuno mi può giudicare (anche perché in Italia non esce): Dredd di Pete Travis



Aspettavo con ansia l’occasione di potermi gustare con calma, e in maniera più o meno dignitosa, la nuova versione cinematografica di uno dei miei fumetti preferiti: Judge Dredd. Del primo esperimento in merito, il disastro con Stallone, ricordo con piacere solo il robot animato da un allora venticinquenne (ma già incredibile) Chris Cunningham. Per il resto nulla da segnalare. La brutale violenza e la carica anarcoide del materiale di partenza rimasero ben impresse sulle pagine di 2000 AD, consegnando agli spettatori poco più di uno spettacolone hollywoodiano senza molto da dire. Occasione persa, ma forse i tempi non erano ancora maturi.

Le cose sono andate in maniera ben diversa con questa nuova trasposizione, eppure il risultato non ha convinto come ci si aspettava. Detto in tutta sincerità non ho ancora capito il perché. Come vedremo il film è ottimo, ma al botteghino (e ai radar degli appassionati, quelli in grado di trasformarlo in long-seller solo grazie al passaparola) non se lo è filato nessuno.

Andiamo per gradi e vediamo di illustrare gli aspetti positivi della pellicola di Pete Travis. Prima di tutto è splendida a vedersi. La fotografia di Anthony Dod Mantle (va bene il premio Oscar per i lavori con Danny Boyle, ma il suo capolavoro rimane Antichrist di Von Trier) è una bomba. Probabilmente la migliore che abbia visto quest’anno. Sporcizia, colori acidissimi, desaturazioni nei punti giusti. Una bella differenza tra chi nella fantascienza pare solo rincorrere l’estetica Apple a tutti i costi o certe palette cromatiche ormai stantie da dieci anni. L’idea di slum futuristico, di caldo, di età media bassissima viene resa alla perfezione. Tutto è sudaticcio. A questa va ad associarsi una regia all’altezza, senza mezze misure. Grazie all’espediente narrativo della droga che rallenta la percezione del mondo è stato possibile sposare riprese da RealTV con rallenty iperstilizzati. Guarda caso quasi sempre utilizzati per inscenare violenza estrema, una roba che non si vedeva al cinema da un sacco di tempo. Che si tratti di una faccia attraversata da un proiettile o di un corpo che si sfascia a terra dopo un volo di centinaia di metri. Detto questo dovreste aver capito quale atmosfera si respira in questi 90 minuti scarsi. Brutalità a vagonate. Siamo dalle parti di Punisher: War Zone, altro gioiello poco capito.

Passiamo alla sceneggiatura, praticamente identica a quella di The Raid. Un palazzo, un boss all’ultimo piano, un eroe (in questo caso due), tonnellate di sgherri. Tralasciando le sterili ipotesi di plagio (come se bastasse così poco tempo per mettere assieme un film) non ci penso neanche per scherzo a lamentarmi di aver visto nello stesso anno due film costruiti su di un’idea così figa. Fine della questione.

Ma allora cosa è che non funziona in Dredd? Abbiamo una sorta di enorme straight to video ultraviolento, girato benissimo e interpretato ancora meglio. Tutto quello che ho sempre sperato di trovare nel cinema di genere finalmente compresso nella stessa pellicola: grandi mezzi a disposizione di piccole produzioni. E allora? Cosa ha fatto da palla al piede al momento di correre al botteghino? Premettendo che la risposta non l’ho ancora trovata (Dredd lo consiglio a chiunque e se dovessi dargli un voto numerico non sarebbe sotto l’8), provo ad arrivarci analizzando il suo già citato gemello The Raid.

Stessa storia, stessa violenza priva di umorismo, stesso odio per ricami e abbellimenti da quattro soldi. Eppure uno è stato un flop clamoroso e l’altro è probabilmente il film più importante dell’anno. Esagerato definirlo tale? Considerando che è stato...

1) girato in una nazione sconosciuta alla gran parte del mondo occidentale (chiedete a qualcuno di indicarvela sul mappamondo!),
2) con un budget inesistente,
3) basandosi totalmente su di un immaginario su cui nessuno pareva scommettere una lira,

...e che poi è finito per...

1) essere distribuito ovunque (due volte solo negli Stati Uniti),
2) raccogliendo punteggi pieni su ogni testata,
3) diventando istantaneamente un paradigma del cinema d’azione (mentre nelle industrie già avviate si cerca ancora di abbindolare qualcuno con ironia/nostalgia/spettacolarità gratuita),
4) incassando non certo cifre da capogiro ma praticamente al netto (anche il marketing è stato nullo, basandosi esclusivamente sul passaparola spontaneo degli appassionati) e diventando comunque uno di quei titoli che in home video faranno macelli,

...direi che il suo titolo se lo è meritato, anche solo per potenza deflagrante.

Nonostante il confronto schiacciante Dredd non merita comunque la fine che ha fatto. Anche perché, a conti fatti, di inferiore ha solo la performance atletica del protagonista. Mi viene da pensare che la differenza stia tutta nelle percezione, in una sorta di carisma impalpabile e irraggiungibile cercando di pianificare le cose a tavolino.

Oppure nella radicalità dell’operazione. In Dredd il plot del palazzo è incastonato in mondo vivo e particolareggiato, mentre in The Raid il mondo è quel palazzo. In Dredd il budget è basso ma comunque sui 50.000.000 di dollari, con tanto di partecipazione di star Hollywoodiane (ottimo Karl Urban), mentre The Raid spunta veramente dal nulla (in quanti abbiamo visto Merantau prima del botto?). In Dredd la violenza è estrema ma riconducibile a certe sparatorie comuni nell’exploitation dei ‘70-‘80 mentre in The Raid è talmente ferale e disperata da disturbare. Forse la carica di questo piccolo film Indonesiano deriva proprio dal suo essere alieno, mentre le vicende del Giudice vengono viste come una sorta di piccolo blockbuster. Quindi roba di serie B, roba da scartare a priori (che è poi la fine che stava rischiando di fare anche KickAss). Se non sono enormi non li vogliamo, verrebbe da dire. Eppure sembrerebbe che anche questa legge stia facendo un po’ il suo tempo (vedi tutta una serie di – meritati – flop infilati quest’anno dalle major).

Cosa abbia castrato Dredd non l’ho ancora capito, rimane il fatto che il film in sé è ottimo e fa tranquillamente le scarpe a tanta paccottiglia fantascientifica ben più in vista. Nonostante sia un film piccolino così.

venerdì 21 dicembre 2012

C'era una volta Miike (reprise)


Sul nuovissimo numero di Players trovate un mio articolo - sul nostalgico andante, siete avvertiti - incentrato sulla carriera del buon, vecchio Miike. Prendetelo come un approfondimento di quanto già detto in fase di recensione di Ace Attorney.

giovedì 20 dicembre 2012

Hell Yeah!


Persi negli anni '90? Allora cliccate su Conversazioni sul Fumetto e subite un nuovo articoletto da parte del sottoscritto. Questa volta parliamo di Hell Yeah, nuova serie Image che non ho ancora capito se mi piace o meno.

mercoledì 12 dicembre 2012

Stare male: The Act of Killing



Se leggete questo blog da abbastanza tempo vi sarete già sorbiti almeno una o due tirate da parte del sottoscritto sul fatto che tutta la menata "demoni interiori - i veri mostri sono dentro di noi - altre banalità agghiaccianti sul livello" sia in realtà ascrivibile, senza tante remore, alla cerchia dei  "problemi da primo mondo". Con questo non voglio asserire che le varie patologie della psiche siano un sciocchezza, anzi. Dico solo che se trovi la forza di atteggiarti da artista maledetto probabilmente tanto male non stai. E quindi tanti saluti a chi invece sta male veramente.

Terminata questa insostenibile predica da anziano passiamo alla segnalazione del giorno (rubata dal solito Matteo Bittanti e pubblicata anche su Wired. Poco importa, qui il punto è un altro), che conferma appieno la mia teoria (e sappiate che se dopo aver visto il trailer sopra e aver letto la spiegazione non state male allora i veri mostri siete voi ).

The Act of Killing è una sorta di enorme candid camera. Il regista Joshua Oppenheimer si è recato in Indonesia, ridente nazione nota per lo sterminio di un milione di comunisti, e una volta arrivato ha fatto credere  agli aguzzini - oggi celebrati come eroi nazionali dai concittadini - di voler costruire attorno alle loro gesta un kolossal commisurato alla statura dei protagonisti. Da buoni subumani quali sono questi si fanno trascinare dall'entusiasmo - come se fosse normale incensare gente che ha compiuto centinaia di omicidi a mani nude - e non possono fare a meno di offrire tutta la loro consulenza per una migliore rappresentazione. 

Adesso pensate all'ultima intervista in cui qualche fenomeno cercava di convincervi come dietro alla sua arte si nascondesse una lato oscuro, oppure all'ennesimo horror metaforico dove il mostro più terribile si nasconde nelle pieghe del conformismo (zzz... zzz...). Poi guardatevi il trailer qui sopra, dove aguzzini che hanno ucciso centinaia di migliaia (centinaia di migliaia) di donne e bambini ridono e vivono come se nulla fosse. E ditemi se non avevo ragione.

domenica 9 dicembre 2012

I REC U: il film che vorrete vedere a tutti i costi



La lavorazione di I REC U (aka il film che dimostrerà a tutti come anche in Italia si possano girare film paragonabili a quelli da invidiare alle produzioni estere - e non si parla di budget, quanto di inventiva e talento - aka la consacrazione definitiva di Federico Sfascia) pare sia ormai in dirittura di arrivo. Qui sopra trovate il trailer definitivo. Se dopo averlo visto non avete voglia di recuperare a ogni costo il film intero evidentemente vi meritate lo sconsolante deserto cinematografico nostrano (escluse webseries, dove invece - dai The Jackal in avanti - pare ci sia un sacco di roba fica. Guarda caso in un campo dove certi vecchiardi non sanno dove metterci le mani perché probabilmente manco sanno che esiste).

venerdì 7 dicembre 2012

Memory of a Broken Dimension


Il suo stesso creatore ha definito questo strano videogame come un simulatore d'interruzione trasmissione dati. Vissuta da dentro.

Che il risultato non sia esattamente la cosa più giocabile e divertente offerta dall'industria videoludica mi pare chiaro. Come è altrettanto lapalissiano però che sono pochissimi i titoli mainstream capaci di offrire una visione così potente, tanto da riuscire a scalfire canoni estetici ormai fuori tempo massimo.

Come ci si riesce? Fatevi un giro sul sito ufficiale di questo gioiello e ditemi dove avete visto qualcosa di così perfetto nel fondere forma e contenuto. Come si dice... di robe belle ne è pieno il mondo, ma di idee veramente importanti se ne vedono poche. La direzione artistica di Memory of a Broken Dimension è fra quelle.




mercoledì 5 dicembre 2012

Coprofagia portami via: 100% Shit di Officina Infernale



Buona parte di 100% Shit è dedicata e/o attinente al grindcore. Per chi non fosse avvezzo a tali sonorità: si sta parlando di uno dei risultati massimi della destrutturazione sonora. Strappo definitivo che avrebbe portato, nel corso degli anni, a una concezione della musica totalmente slegata dai parametri tradizionali. Definibile a grandi linee come una deriva selvaggia e fuori controllo del punk più metallizzato (e viceversa). In realtà si tratta di un genere che si è sempre distinto prima di tutto per la sua implacabile forza centripeta. Il grind è un buco nero costantemente impegnato a risucchiare tutta la lordura che gli gravita attorno. Non è sfumato o ricco di sfaccettature, carico di significati o portatore di chissà quali raffinate riflessioni. Si parla di pura e semplice rabbia espressa tramite schegge soniche di pochi secondi. Principali ingredienti: ritmiche caotiche, vocals subumane, distorsioni ben oltre l’accettabile. E l’assoluta incapacità di scendere a compromessi. Penso che in più di 25 anni di storia non sia mai uscito un disco di grind definibile come morbido o accessibile. Siamo sempre sullo stesso livello di demarcazione tra bianco e nero. Il grigio non è contemplato.

La raccolta di 20 anni di attività di Officina Infernale ne è la perfetta trasposizione su carta. Chi ci vorrà vedere metafore della nostra società o argute riflessioni sul nuovo ventennio televisivo ne rimarrà parecchio deluso. Se invece andate cercando un qualcosa paragonabile a una bomba tubo (artigianale, naturalmente) fatta detonare durante le audizioni  di qualche reality show allora siete sulla strada giusta. Naturalmente ci vuole lo stomaco (e un palato di amianto) per apprezzare certe cose.

Invece di cercare una preview del volume, scaricatevi World Extermination degli Insect Warfare. Riuscite ad apprezzarne la tensione costante, il continuo sputare su tutto, il nichilismo rachitico, la reiterazione dell’aggressività,  la totale mancanza di ragionevolezza e buon gusto? Allora amerete 100% Shit. Avete da ridire su uno qualsiasi di questi punti? Lasciate perdere. Seriamente.   

Il volume è corposo, pieno di roba, incontenibile. Uno scrigno del male dove si passa dalle cover per gruppi power violence alla pornografia in bassa definizione. Poi ci sono i ferali attacchi all’immobilismo italico, ai fumetti, alla superficialità e al culto delle apparenze. Tutto passando prima di tutto da una costante demolizione dell’autore stesso di queste pagine, così irte di aculei verso il mondo esterno. Non si salva niente e nessuno, a partire proprio dal pulpito su cui un sacco di gente si sarebbe irta a sentenziare sul volgo. 

Personalmente di tutte le derive stilistiche del Moz non riesco a farmi piacere nulla come adoro questo suo bianco e nero sporco e sgranato. Dentro ci vedo tonnellate di flyer per concerti da dieci persone, fanzine fotocopiate spedite da chissà quale parte d’Europa, copie in VHS di splatter giapponesi (spesso vendute proprio a quei concerti da dieci persone). Tutto quel putridume che prima dell’era Internet era autentica ribellione verso il mercato del premasticato. Ora un sacco di quella carica autarchica è andata persa, ma farci un giro di tanto in tanto non può fare che bene.

martedì 4 dicembre 2012

Non tutti gli avvocati si nutrono di carogne


Per lo meno non il protagonista di questo fumetto. Lui preferisce cacciare.

Comunque avete capito bene. Una serie che parla di una tigre avvocato. Nulla di più, nulla di meno. Finanziata su Indiegogo e disponibile per l'acquisto sul sito ufficiale. Non ho ancora avuto il coraggio di ordinare i primi due numeri perché prima devo capire se il tutto tende più alla cazzata galattica o al colpo di genio. Le storielle lette in coda a qualche uscita Image (una spintarella da poco, direi) lasciavano intendere una sorta di legal drama con personaggi alla Spillane (e una tigre protagonista, ricordiamolo). Il che potrebbe rendere il tutto estremamente umoristico senza il bisogno di essere una serie comica. Rimane il fatto che la cover del primo numero è un capolavoro. Ci facessero le t-shirt l'acquisto sarebbe obbligatorio.